Non credo, tranne rare e particolari occasioni, che uno scrittore quando scrive una storia debba pensare che la sua opera possa diventare un giorno il soggetto per un film.
Sei uno scrittore, stai scrivendo un romanzo. Non è che ti viene in mente di scriverlo come fosse una sceneggiatura. Magari non sai nemmeno cos’è una sceneggiatura.
Poi però il romanzo viene pubblicato. Qualcuno (molti, tanti, pochi, chissà) legge la tua opera e gli viene l’idea di farci un film. Da quel momento si entra in un altro universo, come se fosse un continuum spazio-temporale alternativo…
Cosa succederà della tua opera è più o meno un evento che è ormai è posto nelle mani degli dèi.

Caso uno: sei stato così bravo a scrivere che praticamente oltre a un libro di successo hai impostato la sceneggiatura del film. È il caso di molte opere letterarie importanti e non mi permetto di fare certo un elenco, perché credo che chiunque sia vissuto sul pianeta Terra negli ultimi duemila anni, sia andato da qualche parte a imparare a scrivere e far di conto, per poi ogni tanto trovare il tempo di andare al cinema, l’elenco se lo possa fare da sé.
Se l’opera letteraria ha un impianto solido, per gli sceneggiatori il lavoro di adattamento è una questione di stile. Prendiamo un opera come “Orgoglio e pregiudizio” di Janet Austin (Pride and Prejudice, pubblicato nel 1813). Dal 1940 a tutt’oggi, tra cinema e televisione ha conosciuto 12 adattamenti. Non li ha avuti la Bibbia (!) che tecnicamente è stata portata sullo schermo solo due volte (nel 1920 e nel 1966). Va be’, ok, non è forse l’esempio più corretto, scendiamo allora di qualche gradino e troviamo un autore come Charles Dickens, che di opere letterarie ne ha scritte una gran mucchia, di sicuro più della Austin, e sceneggiatori e registi lo hanno usato in tutte le salse. Scegliamo l’opera forse più filmata: Canto di Natale (A Christmas Carol, un racconto pubblicato nella raccolta The Christmas Books nel 1843). Per arrivare a 8 versioni dobbiamo includere adattamenti come quello del cartone animato della Disney con Topolino, quello di Mister Magoo, quello di Zemeckis del 2009 girato in tecnica mista e (ma sì!) The Muppet Christmas Carol (del quale il povero Dickens sarebbe comunque andato fiero). Oltre a questi abbiamo poi altri cinque o sei esempi di adattamenti che hanno preso spunto da quest’opera, ma che non sono certo la sceneggiatura del racconto.


La questione di stile (che sia per la Austin o per Dickens è uguale) è proprio legata a cosa ci buttano dentro sceneggiatore e regista: ambientazione, costumi, dialoghi, cast. Un amalgama di aspetti in movimento dentro i rigidi binari del “canovaccio” che ha scritto quel povero cristo dell’autore. E che possono esaltare o far infuriare gli spettatori a seconda del loro personale punto di vista. In ogni caso, se porti sullo schermo un libro, stai dando forma a opere che vivono di lettere dell’alfabeto; proiezioni mentali dello scrittore che, quando ne ha le capacità, te le fa immaginare nella testa. E ognuno immagina come vuole, i colori, gli odori e i personaggi. Al punto che un adattamento “fedele” non è mai quello che uno s’aspetta.
Il che ci porta al caso due: hai scritto una storia talmente pregna di contenuti, che te l’hanno ribaltata come un guanto almeno due e tre volte per farci film, sceneggiati e serie TV.
Credo che questo sia comunque il destino migliore a cui una storia scritta può andare incontro. L’adattamento diventa così un vero e proprio arricchimento dell’opera letteraria, affiancandola o, se è il caso, superandola. Prendiamo un romanzo americano del 1968, neanche troppo lungo, neanche il migliore, di un’autore che ha scritto parecchio e che parecchio è stato saccheggiato dal mondo di celluloide. L’autore si chiamava (pax animae) Philp Kindred Dick e il romanzo in originale si titola Do Androids Dream of Electric Sheep? e sarà poi portato sullo schermo da Ridley Scott con il titolo Blade Runner. Una pellicola del 1982 che ha avuto la bellezza di sette (sì, 7) versioni, le più importanti delle quali sono l’International Cut (1982) ed il Director’s Cut (1992): alla fine, nel 2007, l’American Film Institute lo ha pure posizionato al 97º posto nella classifica AFI’s 100 Years… 100 Movies. Prossimamente, a questo punto, entrerà a fare parte del patrimonio dell’umanità.


La grandiosa operazione messa in atto da Ridley Scott, va al di là del semplice adattamento. La sua capacità nel vedere nel romanzo breve/racconto lungo di Dick (neanche poi tutto, in quanto il film è tratto dalla seconda parte della storia!) un’opera come Blade Runner, non è più solo questione di stile. Vuol dire avere la capacità di reinventare la storia, amplificandone il messaggio, proseguire dove lo scrittore si era fermato, dando luce alle sue parole su carta. Il cinema, da questo punto di vista, è più penetrante. Il cinema ha una capacità subliminale enormemente più grande della parola scritta, e Ridley Scott lo ha saputo sfruttare al cento per cento, perché aveva le idee chiare su cosa voleva dire.
Strada facendo, ci troviamo così al caso tre: ci sono quelli che non sono proprio in grado di fare qualcosa di buono con le opere letterarie.
Dicevamo di come uno scrittore mica può immaginare che l’opera che sta scrivendo diventerà un film, quindi l’opera di adattamento di un testo rischia di scontrarsi con ovvi problemi oggettivi, oltre che a una questione di stile pura e semplice. Il che dà luogo ad almeno un paio di modalità con cui si può affrontare l’adattamento.
Il caso più grossolano al quale si può andare incontro è però quello di un’opera scritta che nel tempo viene bistrattata più e più volte dai signori della celluloide. Senza che lo scrittore iniziale ne abbia minimamente colpa, povero lui.
Poniamo il caso che negli anni ’40 uno scrittore americano abbia scritto un raccontino interessante come idea generale; un po’ debole sul piano stilistico, perché l’autore in questione non ha poi una grande scuola alle spalle, e il racconto del resto viene pubblicato su una rivista pulp di quegli anni (l’aggettivo pulp si riferisce alla carta su cui erano stampate le riviste, ma a volte poteva essere riferito anche all’insieme dei testi che venivano pubblicati, ndr).
Vai a vedere, e questa ipotesi è in effetti divenuto realtà. Titolo del racconto: Farewell to the Master. Autore: Harry Bates. Non un racconto eccezionale, certamente, ma con un’idea molto forte che praticamente solo sul finale, e per finale intendo l’ultimo paragrafo, salta fuori e che dà anche un senso al titolo del racconto (il quale assume in Italia perfino una corretta traduzione, essendo pubblicato come “Addio al padrone”: già questo un evento, ndr). In due parole: una navetta aliena compare sulla Terra, i terrestri uccidono l’occupante biologico, il gigantesco automa dopo un certo periodo di immobilità trova il modo di farlo risorgere e se ne vanno minacciando di terresti di distruzione se continuano di questo passo.
Non succede che nel 1951 alla 20th Century Fox a qualcuno viene l’idea di farci un film? Titolo: The Day the Earth Stood Still. Che non c’entra un tubo con l’originale e come titolo non è nemmeno un granché; perfino nella traduzione italiana sono stati forse più bravi. Sto parlando infatti del film che da noi è arrivato come “Ultimatum alla Terra”. E di quello il film tratta, mettendo l’accento su uno dei temi del racconto. Non certo sull’addio al padrone. Anzi, stravolgendo proprio gli equilibri che il racconto aveva fra i protagonisti.
Non paghi di ciò, nel XXI secolo, sempre alla alla 20th Century Fox (sob!), rispolverano il film (e perciò il racconto di Bates) mettendo in scena un’ordalia ecologista che vede l’umanità schierata sempre contro gli alieni che vogliono farci pagare il nostro style life. Magari hanno anche ragione: nell’universo ci sono così pochi pianeti (in termini percentuali) in grado di ospitare la vita, che veramente ci stiamo dimostrando una razza di coglioni senza speranza. E questo è un fatto, ma ancora una volta poco o in parte ha a che fare con il racconto. Che vi invito a cercare ed andare a leggere; lo trovate in “Le grandi storie della fantascienza vol.2”, ed. Bombiani. Se invece siete impazienti andate avanti a leggere.


La vera differenza nel racconto di Bates non è legata alle situazioni o alla dinamica dell’azione, in quanto si tratta di un racconto scritto e pubblicato ancor prima che gli americani avessero problemi a Pearl Harbor. Se ci faccio un film, cerco di renderlo comunque originale e ci metto cose che so per certo essere di sicura presa sul pubblico, dato che sto entrando in piena Guerra Fredda. Le differenze ci stanno e sono anche lecite.
No, la vera e straziante differenza sta nel fatto che il racconto finisce ponendo l’accento sul fatto che il reale esponente di questa razza aliena che viene sulla Terra a fare da censore, non è il tizio che viene sparato appena mette il piede sul suolo terrestre, ma bensì il gigantesco automa che rimane congelato e immobile agli occhi di tutti, finché non trova il modo di far “resuscitare” il fido attendente. E poi se ne va dicendo a tutti noi che no, così non va mica bene.
Insomma, come se noi andassimo su Vega, ci uccidessero il cagnolino e noi finché non troviamo il modo di farlo rivivere stiamo lì buoni buoni e poi ce ne andiamo dando solo una lavata di capo ai vegani. L’alienità sta proprio in questo; l’essere superiori è proprio prendersi cura delle “razze minori”.
Mi sembra di ricordare che qualche mese fa sia morto un tassista per le randellate a seguito di un caso simile; ma di sicuro, povero sventurato, non aveva investito il cane di un alieno.

(Pubblicato sul n.7 e n.8 di Io Come Autore)

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Vita grama

All’inizio vi fu “Dracula”, quello di Bram Stoker; si era nel 1897 e l’ispirazione era abbastanza chiaramente una risposta all’austera rigidità e all’ossessione fobica sessuale dell’età vittoriana. Lasciamo perdere gli illustri antecedenti (“Il vampiro” di John Polidori del 1819, “Varney il vampiro” di Thomas Presket Prest del 1847 e “Carmilla”, la sensuale vampira del racconto di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872) che, se pur blasonati, intriganti e notevoli, ad aspettare loro, dei vampiri se ne sarebbe persa traccia. È con Stoker che la figura del morto-non-morto acquista fama e notorietà. Dal suo Dracula in poi è un susseguirsi di successi sia letterari che filmografici. Ma fino a qualche tempo fa tutto è stato canonico, nel solco tracciato dallo scrittore irlandese con il suo capolavoro di ossessione gotica e tetra minaccia. Perfino un bellissimo e inquietante film come Miriam si sveglia a mezzanotte (The Hunger, del regista Tony Scott) del 1983, interpretata da Catherine Deneuve, David Bowie e Susan Sarandon, non è riuscito a deviare più di quel tanto la strada tracciata a colpi di morsi infaticabili.
Ma alle soglie del terzo millennio qualcosa dev’essere cambiato, soprattutto per uno come me che non ha fatto molta attenzione a cosa è successo nel frattempo.
Libreria, televisione, sala cinematografica: ovunque cada lo sguardo è un tripudio di vampiri che però, a ben guardare, spostano di molto l’obiettivo iniziale. Dalla necessità liberatoria imposta dalla rigidità vittoriana e dal bisogno psicotico di creare un’alternativa più cattiva all’umanità (non siamo noi i cattivi, ma bensì loro, i “diversi”), siamo arrivati alla necessità della loro integrazione. Ma per farlo dovevano essere operati anche dei profondi cambiamenti al concetto canonico di vampiro, altrimenti i nuovi lettori non ti si filano.

“Twilight” – La locandina del film

L’esempio più clamoroso è senz’altro la serie di romanzi Twilight di Stephanie Meyer (2005/2006), nella quale un’adolescente (americana) si innamora di un vampiro e viene integrata nella loro famiglia. Un prodotto letterario creato ad hoc per gli adolescenti del terzo millennio che è subito diventato una saga cinematografica, la quale ha amplificato oltre ogni misura il successo della serie: da qui blog, fanclub e isterismi adolescenziali sotto tutte le bandiere del mondo. Gli ingredienti ci sono tutti, fondamentalmente vampiri e licantropi, che non vivono però in armonia (in molte pellicole il vampiro è il signore dei lupi, ma non qui di sicuro). In Twilight lo scontro fra le due specie è sul piano fisico-sociale: o si preferisce l’efebico ed esangue Edward, oppure il muscoloso, ipertrofico e peloso Jacob. Il tutto ammantato di una bambagia sessual-psicotropica tipicamente americana (niente sesso esplicito, un bacio ogni due film/libri, i cattivi poco vestiti, i buoni con il maglione a collo alto e che coprono i jeans attillati e, solo per qualche frazione di secondo, i licantropi che si allenano correndo in pantaloncini nel bosco umido…).
Ma cazzarola: stiamo parlando di vampiri, che dovrebbero sventrare le vergini dalla zona carotidea al decolté! Ma niente, altrimenti niente messaggio positivo agli adolescenti: l’umanità deve uniformarsi in una grande amalgama di pace e serenità. E in questo universo i vampiri sono vegetariani e non si inceneriscono al sole ma bensì sbarluccicano, e non so bene per quale strana alchimia riescono anche a generare figli, mentre i licantropi si trasformano in un microsecondo (“a comando” e alla barba della luna piena). Successo universale.

“The vampire diaries” – La serie televisiva

Inaugurato un filone così proficuo (di compensi per autori, sceneggiatori, registi e agenti, naturalmente) non si può certo pensare di esaurirlo, così nel 2009 qualcuno si ricorda che alla fine degli anni ’90 la scrittrice americana Lisa Jane Smith aveva scritto una trilogia che poteva essere recuperata: Il diario del vampiro. Oh, bene. Si ritorna alle origini: un vampiro che scrive un diario è molto Bram Stoker!
Credo che le similitudini però, si fermino più o meno a quello. Qui i vampiri ritornano a dover stare attenti alla luce del sole, finalmente, ma esiste la deroga: i vampiri protagonisti, grazie ad anelli e pendagli magici, passeggiano allegramente (gli altri sono naturalmente un po’ infastiditi della cosa) e nella narrazione frequentano anche la high school locale. Ancora ambiente adolescenziale, dunque, in cui solo il vampiro principale (quello che scrive il diario) si astiene dal bere il sangue umano, mentre tutt’intorno si scatena la ridda di umani che da più di cent’anni cercano di farli fuori e di vampiri che a loro volta cercano assetati la vendetta. Qui non ci sono licantropi, sostituiti dalle streghe; quelle vere, che sanno fare incantesimi e hanno poteri psichici. E che ovviamente hanno instaurato un clima con i vampiri di belligeranza controllata.
Si tratta di una saga molto lunga, della quale la Smith ha scritto parecchi volumetti e che sono serviti per la trama di un serial televisivo americano che per ora ha visto due serie. Tecnicamente più spinto: qualche scena di sesso qua e là, molto bla-bla esplicito in materia, una strizzata d’occhi al fenomeno gay. Insomma, un prodotto confezionato a dovere per accogliere gli adolescenti più “maturi” che prima o poi si stuferanno delle azioni platoniche di Twilight. Senza disturbare molto le loro abitudini qui possono trovare un’altra adolescente (sempre americana, ma maliziosamente più sexy) innamorata di un vampiro ultracentenario ma poco più che adolescente nell’aspetto, che fa di tutto per rinnegare la sua condizione e redimere l’orgia di sangue che ha contraddistinto la sua vita di un tempo. E naturalmente il buon vampiro ha anche il suo doppio nel fratello, più birbantello, che pure lui non è immune al fascino della bella adolescente problematica, alle spalle della quale si dipana ovviamente un filo che conduce a loro. Un filo intrigante e molto poco political correctly: guardatevi la serie e fate finta di essere adolescenti, se non lo siete.

“Being human” – La serie televisiva

Se invece pensate di essere qualcosa di diverso, fate come me e ripetete ad alta voce: fortuna che ci sono gli inglesi.

Nel 2008 Toby Whithouse (al suo attivo come sceneggiatore il più recente Doctor Who, per intenderci, e Torchwood, interessante serie di sf) confeziona Being Human, ambientata nella cittadina inglese di Bristol. Protagonisti: un vampiro, un licantropo e una fantasma impegnati in una problematica convivenza nell’appartamento dove quest’ultima è spirata. Una serie molto ben curata, intelligente, ironica (che gli americani si sono impegnati a rovinare, se è vero che stanno cercando di farne il remake ambientato nel nuovo mondo) che ancora una volta vede un gruppo di “diversi”, di “mostri”, impegnati ognuno a modo suo a cercare di umanizzarsi, ma per scoprire forse che i veri mostri sono gli umani. Chi è diventato un mostro ha dovuto scoprire a proprie spese che si è anche beccato un bel po’ di tormenti esistenziali; man mano si guardano le puntate, i protagonisti perdono la loro carica ironica e la storia diventa forse un po’ troppo carica di simbolismo.
Comunque, a differenza delle serie americane, in “Being Human” non ci sono mezze misure o ipocrite scene paludate: il sangue è sangue, il sesso è sesso, il licantropo è un lupo solo ogni 28 giorni e si trasforma nei tempi che ci aveva già fatto vedere John Landis nel 1981. Il sole, però, anche qui non incenerisce più i vampiri, ma per fortuna non ci sono talismani a decretare in modo classista quali sono i fortunati che possono passeggiare liberamente di giorno. Complice forse l’inquinamento, ma il sole non è dopotutto quel gran fastidio e un bel paio di occhiali risolve il problema. Poi a Bristol mica ci sono spiagge dove un vampiro è costretto a passeggiare; la vita si svolge al pub.

Ancora una volta, dunque, gli inglesi fanno centro: non solo per la sf (sia scritta che filmica) ma anche con il genere horror. Fanno centro forse perché, a differenza degli americani, sono abituati a guardare il centro quando mirano e non la periferia. O forse perché in quanto a vita grama ne hanno passate di peggio che non i cugini a stelle e strisce.

(Articolo pubblicato sul n.51 di Io Come Autore)

A volte commetto errori imperdonabili, aggravati dal fatto che ancor prima di commetterli so esattamente a cosa vado incontro. Lo facciamo tutti, forse, chi più e chi meno.

E quando ci accade di commetterli, il nostro primo pensiero va al tempo: ah, se tornassi indietro non lo rifarei! Ma tant’è, l’hai fatto. Se torni indietro, lo rifai.

Così, qualche giorno fa, ho visto un film che sapevo che non avrei dovuto vedere. Per tante ragioni, ma principalmente perché è tratto da un ottimo romanzo e ben difficilmente in questi casi ciò è sinonimo di buon film (le eccezioni per il XX e XXI secolo si sono già verificate, per cui direi che non è proprio il caso di continuare a sperare).

Sarebbe bastato prendere in considerazione il titolo italiano per acuire i sospetti; ma il titolo originale del film è fedele al romanzo e allora dopo un attimo non ci fai più caso, anzi ti convincici che è colpa dei soliti ignoti che lavorano nelle distribuzioni italiane che sembra abbiamo studiato l’inglese per corrispondenza.

Poi guardi anche chi sono i protagonisti, tra i quali non ci sono né i tuoi attori preferiti, né attori che personalmente avresti calato nelle parti dei protagonisti del libro. Il maschietto (Eric Bana), le altre volte che l’hai visto in una pellicola, per la maggior parte del film anche in quel caso non era granché vestito (in uno diventava insolitamente verde e ringhioso, e zampettava dal Gran Canyon al deserto del Nevada su una gamba sola, nell’altro sempre poco vestito duella con il pelide Achille, avendone poi la meglio). La femmina (Rachel McAdams), tutto ti ricorda men che la protagonista del romanzo La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveller’s Wife, 2003) della Audrey Niffenegger. Un libro che hai apprezzato parecchio e che in alcune pagine ti ha fatto venire il groppo alla gola (le conti sulle dita della mano le volte che ti è accaduta una cosa del genere; e non è che hai letto poco).

Salvador Dalí, Donna alla finestra, olio su tela, 1925.

Ma insomma, è più forte di te, devi vedere come il regista Robert Schwentke e lo sceneggiatore Bruce Joel Rubin hanno animato la vita di una “persona cronologicamente disorientata”, in che modo hanno magicamente trasormato in immagini lo strambo diario dei due protagonisti, che inizia il 26 ottobre del 1991 (Henry ha 28 anni, Clare 20) per passare a Domenica 16 giugno 1968 e terminare a Giovedì 24 luglio 2053 (Henry ha 43 anni, Claire 82) e successivamente a Lunedì 14 luglio 2053 (Claire ha 82 anni), in una caotica ma ordinata sequenza di avvenimenti, perfettamente logici e coerenti.

Ecco, direi che nel film Un amore all’improvviso (aargh…) ciò che manca sono proprio gli aspetti logici e coerenti, come se lo sceneggiatore li avesse ritenuti superflui e noiosi. E credo sia la cosa che rende il film inguardabile e ridicolo oltre ogni misura consentita dal buon gusto. Chi non ha letto il romanzo percepisce solo una melensa, psicotica e inverosimile storia d’amore, costruita con un’accozzaglia di brevi scenette legate fra loro solamente per la presenza dei protagonisti. Chi ha letto il romanzo forse riesce a giustificare i tagli e i cambiamenti operati alla storia, troppo elaborata per rientrare nei minuti richiesti dal taglio commerciale di un film, ma di sicuro sarà anche rimasto perplesso per l’occasione mancata.

Anzitutto la Niffenegger compone una vera e propria elegia, più che un romanzo classico. Questa storia può essere letta al pari di una tragedia greca per la carica di predestinazione che l’autrice carica sulle spalle dei protagonisti. Ma troviamo anche un misurato senso del gotico (un po’ tipico di tutta la produzione della Niffenegger, del resto) per il senso cupo di fine imminente che cadenza la vita di Claire e Henry.

Inoltre, inconsciamente o comunque non intenzionalemente, ha trattato uno dei temi più cari alla sf in modo magistrale, meglio di come hanno fatto tanti autori del genere sf che hanno destreggiato per decenni storie di weird tales o di sense of wonder. E pensare che la Niffenegger con la sf non ha nulla a che vedere, lo ha chiaramente affermato (vedi intervista Intercom). La strana anomalia genetica che impone al protagonista di pendolare avanti e indietro nel tempo, totalmente senza alcun tipo di controllo, non ha una giustificazione di tipo scientifico. Nel romanzo si tenta di delineare questa sindrome, lasciando ricoprire il ruolo di pathfinder alla figura di un genetista contattato dal protagonista (che nel film diventa quasi una macchietta da avantspettacolo), ma la Niffenegger non spreca spazio per delineare meglio la questione. È attratta maggiormente e giustamente dal rapporto tra i due protagonisti, totalmente in balia del fato, drammaticamente predestinati a percorrere tutta la loro vita in un balletto di attesa infinita: Claire che attende i ritorni di Henry e quest’ultimo costantemente impegnato a cercare in lei un punto di ancoraggio definitivo.

Lo stile di scrittura della Niffenegger è inteso proprio a sondare le incertezze e le attese dei due protagonisti, vero cardine del romanzo; sarebbe bastato che i sceneggiatori avessero messo una voce narrante al film, per fare almeno trasparire quest’importante aspetto. Ma niente; hanno preferito puntare tutto sulla stranezza del fatto che un tizio sparisce in un punto per trovarsi, nudo e impaurito, cronologicamente altrove, a volte guardando sé stesso, altre impegnato a difendersi o fuggire.

Un ulteriore aspetto che fa apprezzare il coraggio dell’autrice del romanzo, è la lucidità con cui infarcisce tutta la vita dei protagonisti con una sana attività sessuale, finalizzata ad avvicinarli alla nostra realtà, con le nostre stesse pulsioni e desideri. Altro aspetto che nel film viene miseramente cassato, molto probabilmente per paura della scure censoria della distribuzione americana. Peccato, perché nel romanzo, la sessualità dei protagonisti è proprio uno degli aspetti caratterizzanti della storia; Claire, che conosce Henry all’età di 6 anni, quando lui ne ha però 36, passa la vita in attesa spasmodica del suo amore, che si concretizzerà solo quando lei ne ha 18 e lui 41 per poi attendere di continuare solo nel tempo “reale” (Claire ha 20 anni, Henry 28) quando finalmente incontrerà un Henry totalmente ignaro di ciò che è stato il loro rapporto fino a quel momento e che è poi l’inizio della loro “vera” vita insieme. C’è di che dar fuori da matti.

Ma in realtà si rischia di andare fuori da matti a vedere cosa è divenuto in pellicola questo romanzo; e siccome tengo alla vostra salute mentale vi esorto a non commettere i miei stessi errori. Se qualcuno mi sente: non guardate quel film! Indietro non si torna, o meglio, anche se si torna non si può cambiare quello che avete già fatto.

…una volta Zhuang Zhou sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang Zhou. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang Zhou. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri.

(Zhuang-zi [Chuang Tzu], IV sec. a.C.)

In un millennio nel quale i cloni sono divenuti una realtà, molto probabilmente più concreta di quello che molti di noi hanno occasione di sapere, la science-fiction, che avrebbe tanto se non quasi tutto da dire, sembra invece brancolare nel buio.

Eppure, la clonazione, o meglio la manipolazione della vita umana, è uno dei temi portanti della sf. Anzi, gli ha dato origine se vogliamo considerare il Frankenstein di Mary Shelley uno dei prototipi moderni di questa letteratura, per poi passare al Wells dell’Isola del Dottor Moreau e approdare al Mondo Nuovo di Aldous Huxley.

Paradossalmente, man mano che le scoperte genetiche si sono fatte più concrete, si sono però affievoliti anche i fervori degli scrittori. Non molte, anche se degne di nota, le comparse di cloni nei romanzi pubblicati nei decenni che precedono il nuovo millennio; da A come Andromeda di Hoyle per arrivare al Dune di Herbert, per citare due estremi sufficientemente lontani nel tempo e nel genere.

Un po’ come dire che i cloni sono entrati nel tool-kit dello scrittore di sf, così da scomparire come argomento portante. A parte forse l’eterno, onnipresente, Fredric Brown: nel 1954 scrive il racconto Keep Out (Alla larga!, in Cosmolinea B-2, Biblioteca di Urania 12, 1983) e, come suo solito, centra l’argomento con il rischio di metterci sopra una lapide tombale per tutti quelli che lo seguono (“Se l’uomo costruirà altri tipi umani, chi saranno i ‘diversi’?”). A parte lui, pochi altri gli esempi veramente significativi: Il seme tra le stelle di J. Blish (The Seedling Stars, 1956), Solaris di Stanislaw Lem (Solaris, 1961), Sorella clone di Pamela Sargent (Clone Sister, 1973), Ricambi di Michael M. Smith (Spares, 1994). Forse dimentico qualcosa, ma non molto.

Ad esempio non dimentico di citare Dick, che però merita qualcosa più che una citazione. Nell”immaginario collettivo Dick ha creato i replicanti, ha creato i simulacri, ha messo in circolazione il Modello Due (che non è un clone, ma insomma…). È l’autore che più di ogni altro ha indagato sul significato della realtà intrinseca dell’uomo e ha instillato in ognuno di noi il dubbio taosita della corretta percezione dell’essere (vedi Zhuang-zi). Insomma, è andato ben oltre la domanda posta da Brown sul concetto di “diversità”.
Dick è un autore che, un po’ come Wells, ha fagocitato l’intero genere ed è difficile toccare argomenti che non siano stati già trattati. E come con Wells, il cinema ne ha fatto man bassa.

Dato che negli ultimi anni la sf si è spostata dalla letteratura al cinema, è ovvio pensare che proprio lì possiamo trovare l’argomento clone trattato in modo più peculiare. Mettendo da parte la saga di Star Wars, la cui seconda parte, che e poi la prima, si basa praticamente tutta sui cloni, l’argomento ben si presta ad essere utilizzato, tanto che l’elenco di film potrebbe essere pressoché sterminato. Lo potremmo iniziare da un film del 1956, L’invasione degli ultracorpi, tratto dal romanzo Gli invasati di Jack Finney (The Body Snatcher, 1954); è un film che nei recenti ultimi vent’anni ha visto almeno due remake, ma nel quale sono gli alieni che creano cloni dei terrestri, per cui direi che il discorso non vale, siamo “fuori tema”.

Tralasciando altri esempi ancora più ovvi (quasi tutti di sana matrice dickiana o comunque ispirati alle sue opere, che vanno da Atto di forza a Blade Runner, da Il 6° giorno al recente Il mondo dei replicanti) di esempi ce ne sarebbero veramente a bizzeffe (pensiamo a Terminator, per dirne un altro). Ma a ben vedere, in tutte quelle storie, il concetto di clonazione è un pochino spurio, non è centrale alla storia. Ma forse le cose stanno cambiando con il cinema del nuovo millennio.

La locandina italiana del film

Nel 2005 Michael Bay firma la regia del film The Island, con McGregor e Scarlett Johansson quali protagonisti. Abbiamo una bella storia di sf che vagamente a qualcuno potrà ricordare il romanzo La fuga di Logan di William F. Nolan, ma che è simile solo per l’ambientazione claustofobica. I due protagonisti e tutti gli abitanti dell’Isola (per l’appunto), sono in realtà dei cloni che servono da pezzi di ricambio a dei ricconi che vivono in città. Grazie alla prespicacia del protagonista maschile, che sospetta qualcosa di poco chiaro in tutta la faccenda, i due riescono ad “evadere”; il film si perde in inseguimenti fantascientifici e il tutto viene poi diluito in una patina adrenalinica. Ma è il modo degli americani di concepire le trame dei film, non ci possiamo fare niente (finito quello Michael Bay si è messo a giocare con i Transformer; non l’ha fatto da piccolo e sta recuperando adesso).

La locandina italiana del film

Fortuna, dirà qualcuno, che ci sono gli inglesi. Nel 2009 tal Duncan Jones (che è uno sconosciuto, ben inteso, al massimo lo si conosce perché è figlio di David Bowie…) spendendo una manciata di sterline firma la regia di Moon, ambientato qualche anno nel futuro rispetto al presente, in una situazione globale in cui finalmente si è trovato il modo di sfruttare le risorse messe a disposizione dal nostro satellite preferito. Così una multinazionale ha avuto il permesso di piazzarci una stazione per spedire sulla Terra periodicamente le scorte di Elio 3 che è divenuta la fonte energetica che ha sostituito tutte le altre. Wow!

Siamo finalmente davanti a un opera di fantascienza classica, nella quale valgono di più le idee degli effetti speciali, che dopo molti decenni porta giustizia ai cloni; sarà un caso, ma è inglese. Il film è senz’altro a basso costo, un po’ perché è girato tutto nell’interno della stazione spaziale (con un marcato omaggio allo Stanley Kubrik dell’Odissea), un po’ perché l’attore è in pratica uno solo: Sam Rockwell, con la sola voce di Kevin Spacey che anima Gerty, il computer della stazione. E i cloni, dove sono direte voi? Be’, i cloni sono proprio le numerose copie del protagonista che vengono risvegliate una dopo l’altra, per tenere attiva la stazione anno dopo anno, senza che naturalmente nessuno si sia mai preso la briga di dire al clone la verità. Tutto funziona liscio, finché casualmente un clone non recupera accidentalmente la sua copia precedente, rimasta intrappolata in un veicolo di superficie dopo un incidente, ma ancora viva.

Et voilà, Zhuang Zhou ha finalmento incontrato la farfalla. E da qualche parte c’è ancora qualcuno che ha voglia di usare la sf per quello che è veramente.

Illustrazione di Oscar Chichoni

La letteratura, rispetto alla vita reale, ha il grande vantaggio di poter pianificare la sua rappresentazione. Sta alla furbizia dell’autore fare in modo che gli eventi si dipanino nel modo più corretto. Anche quando gli avvenimenti si svolgono con modalità estremamente realistiche, non dobbiamo scordarci che dietro tutto quello che si legge vi è un piano preciso.
Nella vita reale, differentemente, accadono cose che possono essere veramente inaspettate e incomprensibili. Diamo naturalmente per scontato che dietro il nostro universo non ci sia un’entità che ordina e dispone. I comportamenti dell’umanità sono, perciò, in massima parte stocastici e il margine di prevedibilità è veramente molto basso. Chi può dire, dunque, quali saranno i comportamenti dell’uomo di fronte degli eventi che sarà costretto ad affrontare? Oppure, data la sua intima e personale natura, quali potranno essere i suoi comportamenti in ambito sociale?
Ma gli avvenimenti che a noi possono parere senza senso, il più delle volte hanno delle ragioni ben fondate, derivanti da pulsioni (consce ed inconsce) radicate nel profondo dei protagonisti che le animano. Il caso Marrazzo ne è un esempio più che lampante (approfondisci) e se ci può insegnare qualcosa è proprio in questo senso; comunque finirà tutta la bagarre scatenata a seguito dei comportamenti privati di un ex governatore, con morti sospette al seguito, alla base di tutto vi è l’individuo con la sua natura e le sue peculiarità, che non cambiano da quelle dell’uomo della strada anche se momentaneamente esso ricopre cariche e funzioni che lo fanno apparire come un essere superiore alla media. Si tratta di una sottile questione morale.

La questione morale in letteratura è ovunque. Le citazioni rischierebbero di essere uno sterile elenco di opere, inizierebbe dall’Alcesti di Euripide per finire a Roberto Saviano. Si tratta di un concetto che è strettamente legato al fine stesso della letteratura e perciò non è solo una questione di rispetto della legalità; il discorso si fa complesso. Lo scrivere, e perciò la letteratura, deve pur servire a qualcosa; già di per sé stesso questo è un fatto etico. La letteratura, così come la vita reale, sono strumenti di ricerca per la verità, direbbe un ermetico come Carlo Bo. E gli risponderebbe un qualsiasi scrittorucolo di sf facendogli notare come proprio la famigerata “fantascienza” sia l’ambito letterario ideale per fornire una conoscenza, informare su ciò che non si conosce, fornire gli strumenti per la ricerca del sapere.

La questione morale in sf è trattata da differenti punti di vista. Anche qui il discorso è senz’altro complesso, in quanto ancor più che altri generi, la sf fa suo un argomento che si presta enormemente a valutazioni morali: l’ingerenza della scienza e della tecnologia nella natura umana. La sf è una letteratura ad alto tasso di moralità, se consideriamo le cose dal punto di vista scientifico. E anche qui l’elenco di opere da citare sarebbe sterminato, a cominciare dall’opera completa di H.G.Wells fino al cyberpunk.
Per definire il concetto può essere utile citare un autore come George Alec Effinger ad esempio, che riesce a delineare in uno sfondo come il Budayeen del ciclo di Marid Audrian, una società nella quale convivono aspetti che per il nostro metro di giudizio possono essere considerati senz’altro di “dubbia moralità”; una società dove il cambio di sesso è operazione comune e dove impianti cibernetici permettono alle persone di modificare le proprie capacità e la propria personalità.
Il ciclo si compone di tre romanzi scritti tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, ma che hanno una freschezza, un senso, un riscontro, proprio ai nostri giorni, come testimonia la loro recente ripubblicazione. Il primo romanzo della serie, When Gravity Fails, è del 1987 ed originariamente è stato pubblicato nella collana Cosmo Argento della Nord come “Senza tregua” (traduzione di M.C. Pietri); la nuova edizione proposta dalla casa editrice Hobby & Work mantiene invece il titolo originale di “L’inganno della gravità” (traduzione di E. Raguzzoni).

La copertina originale e a sinistra le due edizioni italiane.

La società dipinta da Effinger è fatta di caste chiuse, dure, in cui i protagonisti si muovono in un oscuro clima di romanticismo tecnologico; una società nella quale l’essere innamorati di una persona che ha cambiato sesso con un’operazione chirurgica è vissuta in modo del tutto naturale; nella quale usufruire di un innesto per trasformarsi in una persona diversa è attività lecita e consentita. Questo è il modo in cui si muove l’investigatore privato Marid Audrian che in questi romanzi ha saputo delineare e indagare molti aspetti che per certi versi rischiano di divenire la nostra prossima realtà; aspetti che nella vita reale di oggi scatenano sempre un bailame di confronti e dibattiti in tutte le sedi ogni volta che salgono alla ribalta, ma che nella finzione letteraria (che deve fornire gli strumenti di ricerca della verità) sono elementi assurti dai protagonisti a rango di normalità. Protagonisti in cui il lettore non fatica a immedesimarsi in una sorta di benefico transfert catartico. Se andiamo a considerare quindi gli aspetti sociali, la sf è una letteratura priva di moralità.

Ma anche la nostra società è priva di moralità. Lo è da sempre, e solo l’agitarsi scandalizzato di coloro che si sentono in obbligo di salvaguardare la presunta onorabilità della razza tenta di far apparire diversa questa realtà.

Etica e morale, nella vita reale, sono etichette che diventa sempre più difficile appendere sotto valori ed azioni assolute. Si tratta di una questione relativa, infatti, definire che sia più immorale frequentare dei transessuali invece che fare azioni per frodare il governo di cui si è rappresentati.

Oppure far credere a tutti di essere il paladino dell’etica e della giustizia, anziché propinare al popolo di sacrificarsi per il loro bene.

racconto di Giorgio Ginelli
segnalato alla quarta edizione del Premio Città di Montepulciano, 1992
e pubblicato sul quotidiano Corriere del Giorno di Taranto, 17 luglio 1992


1.
I tre erano seriamente preoccupati, lo si vedeva da come quello più alto agitava le mani e da come quello che gli stava in fianco scuoteva la testa. Poco più indietro, ma solo di mezzo passo, il terzo, che era il più basso e tozzo, aveva l’aria imbronciata di chi ne ha già avuto abbastanza di tutta quella storia.
– Dai Danton, tranquillo. La beve, vedrai che la beve.
– No. È talmente cretina come definizione che anche mia sorella storcerebbe il naso. “Distorcitore spaziotemporale”… Sa di film di serie B!
Dietro le loro spalle Bieta sbuffò forte, col preciso intento di farsi notare.
– Senti, perfino Bieta ha qualcosa da dire.
– Ci credo bene! Ha ormai finito il prototipo da un mese e smania di provarlo almeno una volta… Dai, dai, vedrai che andrà tutto bene.
– Fermiamoci un attimo… Un attimo che se no divento matto!
– Lo sei già Danton, lo sei già… Come tutti noi, altrimenti non ci saremmo messi insieme in questo progetto.
Il terzetto si fermò davanti a un distributore di bevande e Bieta, incurante dei due compagni che si fronteggiavano, si servì di una cioccolata calda. La cioccolata per Bieta era un rito, fin dalla sua infanzia. Quel poco che ricordava dei suoi genitori, anzi di sua madre, è legato a fumanti tazze di cioccolata servite nei pomeriggi d’inverno. Ogni volta che ne poteva sorseggiare una, la sua mente andava indietro nel tempo… E già, il tempo.
– Senti Guzzo – stava dicendo Danton. – Sono d’accordo con te che Pompeo non accetterebbe mai un progetto riguardante una macchina del tempo. Ma non possiamo nemmeno andare a raccontare la panzana del distorcitore a un docente di neurofisica molecolare!
– È una questione formale, Danton. Formale e basta. Pompeo non può accettare un progetto dichiaratamente al di là delle normali conoscenze tecniche. Ma rimarrà incuriosito, affascinato dall’esposizione che tra qualche minuto tu gli proporrai in quella stanza là in fondo. Non aspetta che te! La tua esposizione della mia teoria neurotemporale sarà l’avvenimento accademico dell’anno!
Bieta intanto continuava a sorseggiare la cioccolata guardando alternativamente i due compagni e sbattè quattro volte le palpebre prima di parlare; anche quello era un avvenimento. – Vi ricordate gli esperimenti fatti da Pompeo sui fenomeni di déjàvu?
– Che diavolo centra il déjàvu con i viaggi nel tempo, Bieta? È la cioccolata che ti fa quell’effetto?
– Non hanno attinenza, è vero Guzzo. Ma incidentalmente sia Pompeo nei suoi esperimenti che noi, nel prototipo della macchina, abbiamo utilizzato le stesse matrici cerebrali.
Il terzetto sembrò inghiottito in una bolla di silenzio assoluto. Il caos del corridoio svanì per qualche istante mentre ognuno dei tre elaborava con la propria materia grigia quell’acutissima osservazione. Infine Danton rompe l’incantesimo e ripiomba il terzetto nel corridoio con un’esclamazione urlata a pieni polmoni: – Bieta, sei un genio!
Anni prima, il loro illustre docente di neurofisica molecolare, era stato il pioniere dell’approccio all’analisi dei fenomeni fisici attraverso le strutture organiche. Un po’ come dire che era stato il primo a usare il cervello… e la battuta aveva fatto subito tutto il giro del Politecnico.
Le matrici cerebrali non sono altro che impianti neuronali di persone realmente esistite e di cui la banca degli organi della facoltà di neurologia era stracolma. Erano servite per un certo periodo alle ricerche contro il cancro, ma furono subito messe in disparte all’avvento delle prime cellule cerebrali sintetiche.
Nei suoi primi anni di ricerca Pompeo era riuscito quasi ad elaborare una teoria che desse una spiegazione ai fenomeni provocati dalle scariche cerebrali, come i déjàvu o le crisi convulsive, proprio utilizzando quelle matrici cerebrali. Si era fermato per paura del ridicolo.
Nell’ambiente accademico già trapelavano voci secondo cui Pompeo giocasse con i cervelli della neuro per fare un megaelaboratore, o per riprodurre in forma sintetica il pensiero umano; tutte voci che lui aveva fatto correre, anche se non vere, poiché davano una connotazione di moderata importanza a quello che era il vero scopo della sua ricerca.
Ciò che turbò la sua tranquillità fu una frase che sentì un giorno, per caso, da due studenti del secondo anno: “Speriamo che Pompeo renda pubblica la sua ricerca, così anche noi potremo aumentare il nostro quoziente di intelligenza”. Lì per lì non ci fece nemmeno caso, ma poi montò su tutte le furie. Non poteva sopportare che girasse una voce come quella; lui non aveva bisogno di trovare un metodo per acquistare più sale in zucca! Se quella voce fosse girata, sarebbe stata la fine per la sua immagine nel mondo accademico e per la sua carriera.
Interruppe così le ricerche e pubblicò un trattato che illustrava più o meno l’utilizzo delle terminazioni neuronali organiche per lo studio del sonno profondo. Ottenne ugualmente la cattedra con tutti gli onori ed è tutt’ora un opera basilare per quanti si occupano di apparecchiature bioelettroniche.
Dunque Bieta aveva visto giusto. Non c’era niente di meglio che far passare la loro macchina del tempo per un’apparecchiatura dedicata all’analisi dei fenomeni elettrici del cervello. Il seguito delle sue ricerche, insomma.
– Dici che dovremmo tirare in ballo i déjàvu, Danton?
– Sarebbe meglio evitare. Non vorrei risvegliare in lui tristi ricordi. Sai com’è di umore viscerale Pompeo.
– Un vago accenno però lo farei… Giusto per fargli capire che noi…
– Vedrò di che umore è e deciderò sul momento.
Nel frattempo il terzetto era arrivato vicino alla porta dell’aula ed entrarono con passo sicuro: il Guzzo, Danton e, trotterellando a ruota, il taciturno Bieta.
Pompeo aspettava proprio loro e non era solo. Alcuni studenti del terzo e quarto corso stavano seduti tra i banchi. – Aspettavamo proprio loro, miei cari signori.
– Stavamo raccogliendo gli appunti – si scusò per tutti Danton. – Vorremmo fare un’esposizione breve e coincisa, signore.
– Bene, non vi manca che cominciare. E non preoccupatevi di quanti vi stanno intorno. Esponete a me il vostro progetto senza preoccuparvi che venga capito da altri che me!
Il Guzzo e Danton si guardarono negli occhi. Bieta si era già seduto e fu subito seguito dal Guzzo che lasciò Danton con lo sguardo perso nel vuoto. Sentiva freddo. Forse era il vento, ma in aprile tira una piacevole brezza. ‘Qua dentro tira aria cattiva, però’ pensò Danton prima di aprire bocca per parlare.

2.
– Bravo Danton – stava dicendo il Guzzo, mentre l’amico piangeva. – Un’esposizione superba. Perfino nei minimi dettagli…
Bieta era seduto accanto a Danton e scrollava la testa; un gomito era appoggiato all’intelaiatura di una macchina che sembrava l’incrocio tra una pedana da discoteca e la stanza di teletrasporto dell’Enterprise.
– Pensa Danton – proseguì implacabile il Guzzo, per niente intenerito dai singhiozzi dell’amico. – Prima che tu dicessi quella maledetta parola, Pompeo aveva mantenuto un’espressione quasi attenta e interessata. Ma è bastato quell’accenno al tempo per mutare irrimediabilmente la mimica della sua muscolatura facciale! E suppongo anche dei suoi processi cerebrali…
– Non volevo – singhiozzava Danton. – Non pensavo che gli bastasse così poco per…
– A Pompeo! – urlò il Guzzo. – Proprio a Pompeo, Danton? Quell’uomo ha un sacro terrore di tutto ciò che possa farlo cadere nel ridicolo! Un minimo accenno al tempo è bastato per insospettirlo e ti ha tirato fuori dalla bocca tutto quello che voleva con due sole domande, Danton. Te ne sei accorto? Dov’eri quando è successo?
– Che possiamo fare ora? Non possiamo buttare all’aria tutte le ricerche e il prototipo. Non abbiamo nemmeno il tempo per fare il prototipo di qualcos’altro.
A quel punto Bieta battè furiosamente il palmo della mano sull’intelaiatura della macchina del tempo: – Non ci saranno altri prototipi che questo!
– Che ti prende Bieta? Se ti prudono le mani grattale su un mobile meno costoso.
– La tua teoria è esatta?
– Che domanda idiota…
– Rispondi.
– Manca solo la fase delle prove sperimentali…
– Bene! Quelle possono cominciare anche subito, perché se la tua pensata è giusta e i calcoli di Danton anche, questa macchina è un gioiello di perfezione. Qualsiasi cosa assemblata da me lo è!
Poter vedere Bieta che si accalora in un discorso non era uno spettacolo da tutti i giorni, e il Guzzo e Danton rimasero un attimo di troppo a bocca aperta, così l’arringa proseguì senza interruzioni: – Cosa dite che penserà Pompeo vedendoci entrare in quella sua maledetta aula tra, diciamo… un anno… no, cinque anni da adesso! Rimarrà sbigottito e non potrà fare altro che rimangiarsi le parole che oggi ci ha urlato. La macchina non aspetta che noi. Abbiamo ancora qualche ora prima che quelli della facoltà vengano a buttarci fuori o ci tolgano la corrente. Saltiamo su quella pedana e io vi porterò dove volete. Anzi… quando volete!
Fu Danton il primo a riprendersi: – Ma non eravamo d’accordo che avremmo cominciato con degli oggetti e di portarli avanti nel tempo solo di qualche secondo, poi minuto e poi infine di qualche ora?
– Il tempo stringe ragazzi: o noi, e adesso, o niente più. Sento già i passi di qualcuno nel corridoio e forse dirigono proprio qui…
– Ehi, Guzzo, dì qualcosa. Questa cavolo di teoria è tutta tua, dopotutto.
Il Guzzo aveva un piede poggiato alla pedana e lo sguardo di chi da troppo è soprappensiero; appena si mosse per salirci Bieta schizzò rapido dietro la consolle di comando: – Cinque anni avete detto?
– Vada per i cinque anni – mormorò Danton salendo il gradino della pedana come se fosse quello del patibolo.

3.
Il nostro cervello percepisce il tempo come un flusso costante di corrente, dice la teoria neurotemporale del Guzzo. Aumentare il flusso di questa corrente significa rischiare di cortocircuitare il cervello; ma se la si incanala con gli opportuni trasduttori il cervello assume senza conseguenze un flusso temporale maggiore. Si muove cioè nel tempo più velocemente.
Tutta le realtà in cui siamo immersi è solo una grossa finzione. Il nostro cervello può essere ingannato anche da semplici realtà virtuali, come il sogno e lo stato ipnotico. Anche queste realtà sono dovute a diverse intensità di corrente elettrica che fluisce tra i neuroni.
La matrice cerebrale all’interno della macchina progetta da Danton e costruita da Bieta, si comportò esattamente come la teoria del Guzzo aveva previsto.
Quando il senso di disagio, la lieve nausea che li aveva pervasi, liberò il loro stomaco e la loro mente, i tre si ritrovarono nÈ più nÈ meno dove erano partiti. Lo scantinato della facoltà era lo stesso, forse più malandato. Sicuramente più buio e umido.
– Ehi, sono anni che non danno una scopata qua dentro!
– Almeno cinque…
– Pensate che ci aspettino? Si saranno pur accorti che siamo spariti nel nulla…
– Quando ci vedranno sarà come comparissero tre fantasmi. Vediamo se c’è ancora qualcuno in grado di spaventarsi.
Nessuno dei tre si ricordava il corridoio così buio. E anche al primo piano c’era minor andirivieni che cinque anni prima.
– Ehi Bieta, sei sicuro di essere andato cinque anni avanti? Qua sembra di essere tornato ai tempi del mio bisnonno, quando al Politecnico non ci andava quasi nessuno.
– Bè, basta guardare il giornalaio nell’atrio. Si userà ancora mettere delle date sui giornali spero.
In effetti erano passati cinque anni, come poterono semplicemente constatare appena davanti all’edicola. Non resistettero di dare anche una scorsa ai titoli dei giornali, senza però ricavarne nessun giovamento; sembrava che i problemi fossero gli stessi di cinque anni prima.
– Dai, andiamo da Pompeo. Non vedo l’ora di farmi vedere da lui.
– Ehi Guzzo, un momento! E se incontriamo noi stessi!
– Non dire fesserie Danton. In cinque anni chissà dove siamo finiti, altroché stare in questa fumosa università!
– Vuoi dire che la tua preziosissima teoria non tiene conto di questo piccolo fattore?
– Ehi, ragazzi, non c’è stato tempo. Questo fa parte degli affinamenti. Del resto dovevamo fare gli esperimenti con degli oggetti inanimati, ricordi?
– Ma è esattamente quello che ho detto io… cinque anni fa!
Il Guzzo si fermò e prese Danton per le spalle: – Calma amico. Forse siamo stati un po’ precipitosi, non lo metto in dubbio. Ma è così che si conquista un posto nella scienza: rischiando sulla propria pelle. Cosa vuoi che succeda se ci incontriamo?
– Ci salutiamo?
– Esatto, bravo. Vedo che in questi cinque anni non hai perso il tuo senso dell’umorismo.
Il corridoio con l’aula di neurofisica molecolare era sempre lo stesso di cinque anni prima e leggendo la bacheca nell’atrio d’ingresso avevano avuto la conferma che Pompeo era ancora al suo posto. La porta dell’aula era aperta e i tre si intrufolarono accodandosi a un gruppo di studenti, fermandosi però sulla soglia.
– Avanti, avanti… Anche voi tre. Non fatemi perdere del tempo li apostrofò una voce a loro ben nota.
– Non ci ha nemmeno riconosciuti… – mormorò il Guzzo. – Andiamo avanti fin dove ci possa vedere.
– Forza sedetevi lì… Nuovi? Di che corso siete?
I tre guardarono Pompeo con occhi divertiti. Appariva solo un poco più vecchio di come lo avevano visto qualche ora prima, ma era indubbiamente sempre lo stesso.
– Avanti! Sedetevi! Non fatemi perdere del tempo!
Decisero, scambiandosi un’occhiata, di stare al gioco; dopotutto cos’era per loro ormai ascoltare una lezione di Pompeo con tutto il tempo che avevano a disposizione?
– Benissimo… Questa è l’ultimo incontro sul tema del nostro seminario e mi dispiace per i nostri tre nuovi colleghi. Posso consigliare loro di iscriversi per il prossimo, alla fine di novembre… Oggi vedremo come sono stati ottenuti i risultati delle analisi condotte da due gruppi di ricerca da me coordinati, sui fenomeni di déjàvu nei soggetti umani della terza età…
Il docente si lanciò in una spiegazione dettagliata delle apparecchiature utilizzate, mente i tre rimanevano sempre più perplessi e sbalorditi.
– Ehi Danton, ma quella ricerca non l’aveva mica interrotta?
– Si vede che in questi cinque anni avrà trovato il coraggio per portarla a termine.
– Allora forse possiamo finalmente parlargli della teoria neurotemporale.
Per tutto il tempo che durò l’esposizione del docente il Guzzo elaborò un quesito da porgli e appena iniziarono le domande degli studenti si prenotò. Quando fu il suo turno si alzò persino in piedi: – Professore, dai risultati dell’analisi condotta non giudica possibile un nesso non casuale con i fenomeni da lei analizzati e i balzi temporali?
Un brusio percorse l’aula, che al Guzzo ricordò il flusso di una scarica nel cervello: da est a ovest, e viceversa in un’onda continua e costante.
– Ma giovanotto, mi sembra chiaro di aver già dimostrato in passato come questo nesso non possa sussistere.
Il Guzzo gongolava felice e stava per urlargli contento “Noi siamo la prova vivente!” quando fu bloccato da una stretta alla mano di Danton, che lo esortava a continuare ad ascoltare quello che diceva Pompeo.
– Nei miei precedenti seminari ho appunto trattato di questi aspetti… Se lei non ha mai partecipato abbia la compiacenza di documentarsi… Un’altra domanda, per favore.
– Ma professore! – urlò a quel punto il Guzzo. – Come può dire una cosa simile? Non ci riconosce?
– Riconoscere chi, diamine?
– Ma noi tre! – e il Guzzo sollevò Bieta e Danton che si dibatteva, prendendoli per un braccio. – Siamo quelli dellamacchina del tempo! Cinque anni fa, in questa stessa aula!
– Ma che diavolo state farneticando. Cinque anni fa svolgevo ancora attività di ricerca, vivaddio! Chi siete, insomma? Non vi ho mai visto in questa facoltà.
Danton strattonò il Guzzo per la manica: – Usciamo! Presto, usciamo da quest’aula!
– Ma che diavolo fai! Non senti quello che ha detto?
– Certo, e ha perfettamente ragione, zuccone che non sei altro. Vieni via che cerco di spiegarti.

Disegno di Cristina Maiocco

La porta sbattè dietro di loro smorzando il brusio che avevano prodotto nell’aula. Nessuno uscì per inseguirli e si incamminarono verso il sotterraneo dove era la loro macchina.

– Spero tu ci possa spiegare ora.
– Certo, ben volentieri! La tua dannata teoria non tiene conto che noi ci muoviamo in qualcosa che non esiste!
– Che diavolo dici!
– Il nostro cervello non può creare il futuro, ci può solo andare.
– E allora?
– E allora – intervenne Bieta spazientito, – ogni volta che si va nel futuro ci si sposta anche di continuum. Cioè andiamo in un futuro che è già esistito per qualcuno, non certo nel nostro. – In questo continuum noi forse abbiamo studiato nella stessa facoltà, ma ce ne siamo andati almeno da cinque anni, quando Pompeo non era ancora il docente di quella cattedra. Stava ancora facendo le sue ricerche! Per quello che ne sappiamo noi tre non ci siamo nemmeno mai conosciuti.
– Mi stai dicendo che è perfettamente inutile che siamo andati avanti nel tempo?
– Più o meno…
– Ma la macchina funziona!
– Ma a cosa ci serve? Bieta si avvicinò al Guzzo e battendogli la mano sulla spalla continuò: – La macchina del tempo va solo avanti, e comunque anche se andasse indietro non è più una questione di tempo, perché ormai il nostro continuum temporale è definitivamente perso… Il tempo è solo un’enorme bugia, Guzzo. O forse, più filosoficamente, il tempo racconta grosse bugie e noi abbiamo creduto alla più grossa di tutte: quella di potercene servire.

(© 1991 by Giorgio Ginelli)

In seguito su CITY3

In primo luogo osservate con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia
(da Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam, 1509).


Il nostro rapporto con la follia ha ragioni profonde e antiche. Nonostante l’evoluzione della nostra specie prosegua inflessibile da centinaia di miglia di anni, abbiamo ancora qualche difficoltà a riconoscerla e ad apprezzarla per quello che è il giusto oppure ridimensionarla per i suoi eccessi. Insomma, non siamo in grado di gestirla nel modo più corretto, in quanto non comprendiamo a fondo i meccanismi che la regolano e non ne intravediamo un uso proficuo. Ha provato Geer Gertz nel XVI secolo a tesserne le lodi e Shakespeare ce l’ha propinata in tutte le salse quasi in ogni opera, proprio a rimarcare che la pazzia e la compagna ideale della razza umana: “La pazzia, signore, se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda” (W. Shakespeare, Aforismi).

E così, da sempre, ci culliamo in questo dubbio dicotomico: curarla o assecondarla?


La medicina cinese riconosce almeno due forme psichiche in cui si può riconoscere la pazzia: dian (follia calma) e kuang (follia agitata). Se la prima è una semplice sindrome di tipo yin con una perturbazione dello shen-ming, legate al vuoto di Milza e Cuore, la seconda, conosciuta anche come furore convulsivo (kuang jing) è sicuramente più grave. È questa seconda forma che provoca la fuga dello yang o, come le chiama il Su Wen, la fuga del verso tutte le parti yang del corpo; è il fuoco del Fegato e del Cuore per compressione del qi legata ai sette sentimenti.

Insomma, una cosa seria da dover gestire, difficile (se non impossibile) da dover curare. Riconoscerne i sintomi, evidentemente, è l’elemento chiave per la cura o la prevenzione da mettere in atto. Se in una persona si riscontrano disturbi quali ad esempio la risalita dello yang del Fegato, oppure il vuoto di sangue e qi, se compaiono le ostruzioni da catarri e vi è una netta insufficienza del jing del Rene, con tutti i sintomi fisiologici che li caratterizzano, si può pensare di essere di fronte a turbe di origine neurologica e agire di conseguenza.

Ma si sà, dalle nostre parti (in occidente) non si fanno questi ragionamenti; farsi passare per pazzo basta andare in giro con le mutande a rovescio o dire di venire da un altro pianeta.


Un po’ quello che succede al protagonista di K-Pax, romanzo di Gene Brewer del 1995 (tradotto da Dario Fonti e pubblicato da Baldini Castoldi Dalai nel 1996); nel 2001 sono anche riusciti a trasformarlo in film, solo dopo che il regista Iain Softley è riuscito ad attirare l’interesse di Kevin Spacey e Jeff Bridges. È un bel film, con un ottima regia e buone interpretazioni da parte di tutto il cast. Curioso il taccuino di appunti dell’alieno Prott, disponibile on-line per la consultazione: www.k-pax.com/journal/.

SOPRA - Copertine di tre edizioni del libro: l'originale, l'italiana e quella "post movie"


Trovano il protagonista nel bel mezzo di New York e subito lo si etichetta come pazzo, in quanto dice appunto di venire da un pianeta della costellazione della Lira cavalcando un’onda di luce. Viene preso sotto l’ala protettrice del dr. Powell, il quale si fa in quattro per dimostrare che invece e terrestre quanto tutti gli altri che lui conosce. E alla fine crede anche di riuscirci, e l’alieno Prott diviene il terrestre Robert.

È un film del quali pochi hanno capito la bellezza e che non viene nemmeno considerato un film di science-fiction; principalmente perché la storia è intelligente, scritta dal dr. Brewer, che si è occupato di replicazione del DNA e divisione cellulare, prima di diventare uno scrittore.E se la storia è intelligente, cosa c’entra con la fantascienza?

In effetti c’entra molto, ma nessuno ci ha fatto caso; tanto per cominciare si tratta di una vera e propria trilogia che ha Prott come protagonista (http://www.genebrewer.com/index.html) ma che in Italia è arrivata zoppa perché nessun editore ufficiale di sf l’ha preso in considerazione.

Siamo troppo abituati a cogliere, soprattutto nella finzione filmica, aspetti in cui la science-fiction è urlata. Trame e sceneggiature più “sottili” sono da sempre poco considerate, sia dal grande pubblico che dai critici.

L’alieno Prott utilizza l’ondulazione luminosa per trasportarsi nell’universo; siamo abituati a considerare la materialità e troviamo poco affascinante forse vedere un alieno che non sta in groppa al suo disco volante. Prott usa la luce, è fatto di luce magari. Prott trova nel terreste Robert un forte richiamo; quando capisce che quest’ultimo ha un bisogno estremo decide di sacrificarsi e per un po’ ed entra in lui, salvandolo in qualche modo dalla morte. Per abbandonarlo quando capisce che ha trovato nel dr. Powell qualcuno in grado di accudirlo; e riparte così sull’onda di luce lasciando sulla Terra un simulacro che risponde al nome di Robert.

La migliore science-fiction che io conosca è così: sottile, caratterizzata dalla leggerezza, una dote letteraria indispensabile.

Siamo nel 1959; a ottobre sulla rivista Galaxy esce un racconto di una struggente bellezza per il messaggio che riesce a trasmettere: A Death in the House di Clifford Simak (edizione italiana in Eternità perduta, Fanucci, 1980). L’idea che Simak ha degli alieni è senz’altro atipica per il tempo e tutta la sua bibliografia ne è la testimonianza; anche Simak, ovviamente, era folle… Il protagonista del racconto trova una mattina una navicella spaziale nel campo dietro casa, con un alieno moribondo che poi gli muore in casa e lo sotterra nel campo; ma la science-fiction non è qui. La sf sta nel “sacrificio” che l’essere alieno, rinato grazie al fatto di essere stato seppellito, decide di attuare prima di ripartire, lasciando al terrestre qualcosa che per lui è preziosissima, ma che per il terrestre potrà essere ancor più importante per sconfiggere la sua solitudine. Un estremo sacrificio fatto in segno di amicizia e affetto. Un po’ come Prott con Robert.

Roba da pazzi! Come si fa a fare della fantascienza con queste temi? Qualunque psichiatra non esiterebbe un attimo a sbatterci in manicomio. Dove non è difficile finire se sei un alieno in transito, come abbiamo visto.

Nel 1967 lo aveva fatto anche John Brunner in Quicksand (Sabbie mobili/La donna venuta dal nulla, traduzione di Roberta Rambelli, collana Slan n.37, ed. Libra, 1978); nelle campagne del Galles viene trovata una ragazza dalle fattezze infantili, totalmente nuda, che non parla nessuna lingua conosciuta e che sembra venga appunto dal nulla. Lentamente il medico che la tiene in osservazione nell’ospedale psichiatrico, riesce a svelare il segreto e fa affiorare la civiltà di Llanraw per metterla in contrapposizione con quella terrestre; è uno dei primi e più sottili esempi di temi sociologici del Brunner che poi abbiamo conosciuto per opere di maggior spessore.

A ben guardare girando tra i corridoi dei manicomi letterari della science-fiction, non si trovano solo alieni. Marge Piercy nel romanzo Sul filo del tempo (Woman on the Edge of Time, 1976, tradotto da Andrea Buzzi e pubblicato nel 1990 da Elèuthera) è riuscita a piazzarci in modo decisamente efficace (dal punto di vista letterario, s’intende) anche una portoricana affetta da una sindrome cronotopica che la fa pendolare continuamente con un futuro proiettato di 16 anni dal suo presente.

Insomma, che Erasmo da Rotterdam avesse ragione? Difficile non tessere le lodi della pazzia, visto che senz’altro è uno dei prodotti più interessanti della nostra civiltà, ma non solo: tra i pazzi si possono trovare gli individui più interessanti che ci possano essere. Umani e non.

(Pubblicato sul n.16 di Io Come Autore)

Quante volte l’abbiamo visto accadere? Sofisticazione alimentare e qualcuno ci lascia la pelle. Strane malattie resistenti che non si sa da dove arrivino o che, peggio ancora, non si sa fin dove arriveranno. Una volta è il pollo o magari la carne di manzo, infine il maiale, in una giroscopica danza della morte.

L’attenzione che poniamo a quello che mangiamo è totalmente travisata dal bombardamento mediatico al quale siamo costantemente sottoposti. Non ci facciamo caso, ma purtroppo quello che mangiamo, il più delle volte, è quello che per sentito dire qualcuno ci ha detto che è meglio ingerire. Magari l’ha detto la nonna o ce lo ha inculcato la mamma, e se siamo stati abbastanza scaltri da evitare i consigli parentali ci pensa la pubblicità a riportarci in linea con il resto del mondo.

Un po’ come nel romanzo I mercanti dello spazio (The Space Merchants), di Frederick Pohl e Cyril M. Kornbluth; un acuto romanzo del 1953 che ancora lo si trova, perché è uno di quei libri che ha segnato la strada. È arrivato in Italia nel 1962 (Urania n. 297) e da allora la Mondadori lo ripubblica più o meno costantemente.

SOPRA - Edizioni italiane del romanzo dal 1962 al 2008

L’attualità del romanzo non sta nell’aver utilizzato tra gli espedienti narrativi, trovate “singolari” per i tempi come quella del caffè con alcaloidi addizionati (così da creare dipendenza), o la carne di pollo sintetica creata in vasche di laboratorio e che diviene la soluzione per eliminare la fame nel mondo. L’attualità sta nel protagonista: l’uomo. Quello che tra tanti, comunque vadano le cose, a un certo punto alza la testa e dice basta, o almeno ci tenta. Ecco: quello è l’uomo che forse ci salverà, che ci porterà fuori, perché potremo sempre contare sul fatto che lui sarà sempre lì a vigilare. È la soluzione che sempre la nostra specie ambisce: contare su qualcuno che faccia per noi il lavoro sporco e ci salvi.

Per quello che serve, ovviamente; nel romanzo, ad esempio, il pubblicitario protagonista della storia si ritrova ad essere buttato dall’altra parte della barricata, tra i consumatori.

Così come nella realtà l’uomo non ha nessun tipo di controllo su ciò che viene prodotto e può solo fidarsi di quel poco che viene riportato sulle etichette dei prodotti. Anche ciò che l’uomo coltiva personalmente non è esente da rischi, in quanto nessuno ha il controllo completo delle materie prime che vengono impiegate e tantomeno governa le condizioni metereologiche della zona in si coltiva.

Anzi, l’aspetto del ingovernabilità sembra in genere preoccupare veramente poco le persone. Certo, a parole, basta chiederlo e tutti sono seriamente preoccupati se non addirittura impegnati a contrastare le sofisticazioni. Ma per migliorare la situazione basterebbe probabilmente molto meno dell’impegno civile: attenzione a cosa si mette in bocca, come con i bambini!

Ad esempio, secondo i canoni della medicina cinese, noi siamo ciò che pensiamo, che respiriamo e che mangiamo; alimentazione e respirazione, infatti, sono Hou t’ien, ovvero le due fonti che contribuiscono a creare l’energia acquisita (energia rong) che consente al nostro corpo di vivere e svilupparsi. Secondo questa semplice affermazione dunque, il fatto di essere impotenti contro la sofisticazione alimentare, mina per un terzo lo stato di buona salute di ogni individuo.

Le indicazioni della medicina cinese sono, almeno in un primo livello, in definitiva molto semplici: nutrirsi esclusivamente di alimenti locali, mangiare frutta e verdura nella stagione in cui matura, assumere alimenti il più possibile freschi, evitare i prodotti raffinati come lo zucchero bianco, la farina bianca e i cereali privi del loro involucro, lavare accuratamente frutta e verdura. Insomma, sembra di sentire parlare la nonna. O che le nonne abbiano comunque attinto alla monumentale opera di Li Shi Zhen, terminata alla fine del XVI secolo: il Ben Cao Gang Mu, ovvero il Compendio di materia medica in 52 volumi nei quali sono descritti e classificati circa 2000 farmaci ed è la più importante opera di scienze naturali, medicina, farmacologia, botanica, mineralogia, astronomia di tutta la storia cinese e che è poi servito da base anche per lo sviluppo della dietetica.

Un argomento, questo della dietetica, che per la tradizione cinese è però in effetti molto complesso da gestire, in quanto bisogna saper accordare fra loro la forma e l’energia degli alimenti con il loro sapore, in quanto l’obiettivo principale è l’aspetto energetico dell’alimento, legato principalmente alla qualità.

E siamo tornati al problema: la qualità è un concetto ormai aleatorio. Dobbiamo accontentarci del modesto livello di controllo che possiamo operare personalmente o che effettuano gli enti preposti.

SOPRA - Ben Cao Gang Mu (Compendium of Material Medica)

Morire per fame, in molte parti del mondo è ancora una realtà e per loro qualcosa si può ancora fare. Un po’ come quando vedi qualcuno che è sotto il tiro di un’arma: sposti la canna dalla traiettoria. Più difficile sarà invece evitare di morire di nutrizione errata, perché in questo caso non sappiamo da dove può arrivare colpo.

racconto di Giorgio Ginelli

2 classificato alla II edizione del Premio Città di Courmayeur, 1989
Pubblicato su Space Opera 2, 1990
Finalista al Premio Italia, 1991
Pubblicato su MCmicrocomputer, dicembre 1995

Avete mai notato come il progresso metta nella condizione di realizzare più facilmente delle macchine che lo stesso progresso ha già da tempo reso inutilizzabili?
In genere questa è la domanda con la quale apro una normale trattativa con il mio cliente. Ma non sono più un normale piazzista; ormai vendo “macchine automatiche per la lavorazione della pasta e accessori complementari allo sviluppo dell’alimentazione”, come sta scritto sulla mia licenza, e l’utenza non può certo definirsi 
normale.
Le macchine per lavorare la pasta sono inutili nel nostro tempo, direte voi. Infatti, chi mai può mettersi a tirare la sfoglia in casa?
Appunto. Ora che la tecnologia ci permette di costruire delle macchinette per tirare la pasta che sono praticamente dei gioielli di perfezione, per l’assoluta assenza di attrito fra pasta e rulli e l’infarinatura controllata da un sensore inserito all’uscita della sfoglia e comandata da un microprocessore, e altre meraviglie che non sto ad elencare, ora chi mai le comprerebbe?
Qui da noi più nessuno, ormai l’abbiamo capito. Ma cerca cerca, un piccolo mercato alla fine l’abbiamo trovato. Bastava pensarci un po’.

* * *


La stradina era molto polverosa, anche perché ci batteva il sole quasi per tutta la mattinata e non pioveva da un bel po’ di tempo. Ma era l’ultima cascina da visitare di quel turno; poi finalmente avrei avuto una settimana di sano riposo a casa.
Arrancai dunque gli ultimi metri della breve salita che mi separava dall’aia, con un fondo di felicità nel cuore generato dalla stanchezza appagante… e mi obbligai a sorridere, non appena il cane dal fondo del cortile cominciò ad abbaiare furiosamente nella mia direzione. Subito un bambino uscì dalla stalla e poi un altro da dietro un angolo della cascina, che sicuramente portava al frutteto che avevo notato salendo la stradina. Una donna si affacciò alla porta della casa, con un altro bambino attaccato alla gonna. Infine, il fattore fece capolino dall’alto del fienile col forcone in mano; pronto per ogni evenienza.
— Salve a tutti — urlai in direzione della casa senza guardare nessuno in particolare, alzando una mano a mo’ di saluto. Il gesto provocò un nervoso e sensibile aumento nell’abbaiare del cane che maledissi mentalmente. — Salve — ripetei questa volta rivolto al fattore, che stava scendendo dal fienile usando la scala appoggiata contro. — Incantevole questo posto… Sì, incantevole davvero — sibilai tra i denti, ma il cane non smise di abbaiare.
Il fattore, nel frattempo, era arrivato a terra saltando gli ultimi due pioli della scala; si girò e mi squadrò. Ma non provavo nessun timore, sapevo quanto fosse perfetto il mio abbigliamento; la nostra sezione “Immagine & Dettaglio” era all’avanguardia per quanto riguarda i travestimenti di noi piazzisti. E poi, quello stesso abbigliamento, aveva superato la prova della quindicina di altre fattorie che avevo visitato nei giorni precedenti.
La donna si avvicinò al fattore e assieme a lei anche il bambino che gli stava sempre stretto alla lunga sottana. Gli altri due, invece, erano scomparsi fin da quando il fattore aveva preso a scendere dal fienile, forse approfittando della mia visita per godere di qualche minuto di distrazione. Il cane continuava insistente ad abbaiare.
Rivolsi un mezzo inchino al fattore ed alla signora prima di deporre il voluminoso pacco che avevo fra le mani, togliendo nel contempo un fazzoletto dalla tasca della giacca per detergermi il sudore dalla fronte.
— Cos’è che vende, lei? — chiese il fattore, indirizzandomi un cenno col capo. “Male”, pensai. “Male. Questo ha già capito che gli voglio vendere qualcosa. Male…”
— Per carità — gli risposi con un terribile sorriso. — Non mi deve giudicare severamente solo perché ha avuto qualche sgradita esperienza con altri meno onesti di me… La prego.
— Non ho capito cos’è che lei vende — ripetè il fattore ostinato, avvicinandosi sempre di più con atteggiamento minaccioso.
— Sì, certo… La vedo già interessata al mio articolo e lo sarà ancora di più, dopo che le avrò illustrato il funzionamento di questo… — e parlando, tamburellavo con la mano sul grosso pacco che avevo deposto ai miei piedi, — … meraviglioso accessorio.
— C’ho già tutto per la campagna.
— Ma non è per la campagna. È per la sua casa!
— C’ho già lei per la casa. Per tutto quello che serve! — disse il fattore indicandomi la donna al suo fianco.
— Oh… Ma che c’entra… — borbottai.
— Mandel via… Mandel via che gò da fà — sentenziò il fattore rivolgendosi alla donna e indicando minacciosamente il cane che continuava a tratti a latrare.
— Appunto per quello sono venuto — dissi quasi sull’orlo della disperazione. — È proprio per dimostrarle quanto sia utile l’oggetto che ho portato con me, che sono venuto a quest’ora della giornata.
Ora che avevo un certo vantaggio non avrei lasciato loro un attimo di respiro, così mi lanciai: — La signora starà probabilmente preparando il pranzo, non vero? Bene! Se mi permette voglio mostravi un utile ausilio per il lungo e faticoso lavoro di preparazione del pasto. Vedete questo pacco?
Non mi aspettavo certo una risposta e perciò sollevai da terra il voluminoso pacco senza nemmeno guardarli in viso. — Vi è racchiusa la più fantastica delle macchine da cucina che qualcuno vi abbia mai fatto vedere! E se mi permettete di entrare un attimo vi illustrerò ciò che è in grado di fare!
— Ma no. Ma no. Non c’abbiamo ancora la corrente giusta per ‘sti rob chi. Va là. Va via…
— Ecco, anche questa è una meraviglia. Questa macchina non ha bisogno di nessun tipo di alimentazione.
— Cos’è…?
— Non ha bisogno di corrente, intendo…
— È a mano?
— Funziona con un’energia particolare, che non deve essere mai ricaricata. Una nuova scoperta scientifica! Un’energia eterna! — così dicendo scoperchiai il pacco, mettendo in mostra la macchina.
Ogni volta che arrivo a questo punto si interessano tutti di colpo al mio prodotto; il 
design stesso della macchina è stato studiato per attirare completamente l’attenzione dell’acquirente. Ed anche in quel caso, l’effetto fu quello desiderato.
Il fattore si tolse il cappellaccio e si avvicinò di più alla scatola per gurdare meglio dentro. — Potremmo entrare… — suggerii, sperando in cuor mio di averlo convinto ad ascoltarmi ancora un poco. Non rispose, ma con la testa fece segno di seguirlo. Ci incamminammo verso il casolare, mentre il cane si prodigava in lugubri strepitii, tentando di garrotarsi con la catena che lo teneva legato.
La cucina era come tutte le altre che avevo visitato in quella settimana. Rispetto ad una delle cucine alle quali siete abituati voi e anch’io, mancava di tutto. Perfino di un decente e rispettoso impianto di acqua corrente. Appoggiai il pacco sul tavolo e ne estrassi la macchina. L’attenzione di tutti era rivolta ai miei misurati gesti, anche se un velo di scetticismo animava gli occhi del fattore, mentre la donna e il bambino aggrappato alla sua sottana ostentavano uno sguardo indifferente.
Dispiegai pian piano sul tavolo tutto quello che era contenuto nel pacco: la macchina per tirare la pasta e i cinque contenitori dei rulli per i diversi formati. Poi, sempre con il mio terribile accattivante sorriso sulle labbra, guardai dritto negli occhi del fattore. — Ora, attenzione… Questa che vedete è la più 
moderna macchina per tirare la pasta che abbiate mai potuto vedere in funzione… e che vedrete mai! Se gentilmente la signora — così dicendo rivolsi lo sguardo alla donna, — volesse darmi la farina e le uova necessarie…
Ma la donna guardò l’uomo, che a sua volta mi lanciò uno sguardo nel quale potei chiaramente leggere: “Se mi consumi uova e farina per niente, t’ammazzo!”. Poi, fece un gesto e la donna si affrettò a portare un vaso e il cesto con le uova.
— Oh, bene… Sarà semplicissimo, vedrete — iniziai così ad armeggiare con la macchina. — Questo è il contenitore dove va riposta la farina. La prego, ne versi la solita quantità — dissi rivolto alla donna, che eseguì da quel momento in poi le mie indicazioni senza più degnare di uno sguardo il fattore, come se ormai quello fosse in ogni caso compito suo. — Ecco fatto… Brava… e dentro questo scomparto metta le uova… Quante ne desidera… Senza romperle… Bene, così…
Fu meravigliosa la fiducia cieca con la quale si abbandonò ai miei voleri. — Vede questo piccolo punsante? — chiesi alla fine di tutte quelle operazioni, indicando il fianco sinistro della macchina.
La donna però si era allontanata dal tavolo e il fattore mi scrutava con occhi sempre più socchiusi. — E allora? — mi apostrofò bruscamente.
— Be’, allora bisogna premerlo, dopo aver fatto tutte le operazioni che la sua signora ha così gentilmente eseguito… Sù, la prego. Non abbia nessun timore…
Ma la donna rimaneva sempre discosta dal tavolo. Fu il fattore a stupirmi, perché con un brusco movimento della mano e un grugnito di stizza incitò al donna ad avvicinarsi ed eseguire. Come a dire di non fargli fare figure con quel forestiero, ora che si era arrivati a quel punto.
Ci vollero altri due grugniti come il primo, forse anche più minacciosi, e un “Schiscia al bûton…” prima che lei si avvicinasse quel tanto che bastava per poter premere il temuto bottone. E dopo averlo pigiato si ritrasse subito, come se il pulsante scottasse e si fosse ustionata. Si sfregò persino la mano contro la sottana.
Nel frattempo la macchina si era messa silenziosamente in moto; solamente accostando l’orecchio si poteva sentire una debole vibrazione. Sul pannello comandi, dove stava il pulsante che la donna aveva così coraggiosamente premuto, una lucina verde pulsava regolare.
— Vedete questa lucina verde? È il segno che la macchina sta impastando regolarmente la farina con le uova e tra qualche minuto lascerà il posto a una lucina blu. Solo in quel momento la macchina avrà finito quella delicata operazione.
Entrambi, il fattore e la donna, guardavano alternativamente la macchina e me; la macchina come se fosse un diabolico aggeggio e me con lo sguardo di chi capisce si e no una parola su dieci di quelle che dicevo. Ma sapevo fin dall’inizio di parlare per loro quasi in una lingua sconosciuta e non me ne preoccupavo: il risultato avrebbe poi parlato da solo. Continuai perciò la dimostrazione, incurante dei loro sguardi confusi e dicendo solo lo stretto indispensabile per colmare il silenzio.
Finalmente si accese la lucina blu e lo feci subito notare ai due zotici: — Ora la macchina è pronta per sfornare il tipo di pasta che voi desiderate. Basta applicare uno di questi cinque contenitori in prossimità di questa fessura. Se non ci mettete niente uscirà la sfoglia.
Così dicendo feci avanzare di un breve tratto i rulli e dalla fessura fuoriuscì una lingua di sfoglia dello spessore ideale.
La donna e il fattore si guardarono in volto, poi guardarono me e poi ancora la sfoglia che fuoriusciva dalla fessura. Infine, sedettero.
— Toccatela, vi prego… Prenda signora — e le porsi un lembo della sfoglia fuoriuscita miracolosamente dalla macchina. — Saggiate lo spessore, la consistenza, osservate il colore. Valutate la porosità della sfoglia.
L’atteggiamento dei due nei miei confronti e in quelli della macchina, cambiò radicalemente! L’uomo, perfetto figlio del suo tempo, fu attirato dal diabolico macchinario che aveva di fronte e si impegnò a squadrare la macchina come se con la sola vista avesse potuto trapassarla per vedere gli ingranaggi muoversi al suo interno; la donna sedeva beatamente con lo sguardo perso nel vuoto e un sorriso nell’anima, come se qualche buon angelo del cielo le avesse dato finalmente una speranza per diminuire da quel giorno la fatica giornaliera.
Avevo ottenuto il risultato sperato e potrei spiegare di nuovo cosa dovevano fare, avendo ormai la loro completa attenzione. Insegnai alla donna anche a manovrare il selettore per lo spessore della sfoglia e ad inserire i contenitori per ottenere i diversi formati di pasta. — Questo è per i tagliolini. Qui, vede, si regola lo spessore della striscia, fino alla lasagna… Questo è per i maccheroni, di tutti i tipi, lunghi, corti, larghi… Questo è per la pasta speciale, strozzapreti, orecchiette… — e così via, finché non riuscii a illustrarli tutti e cinque anche nei minimi dettagli.
Alla fine mi sentivo veramente soddisfatto, come mi accade ogni volta che faccio una completa illustrazione del prodotto che devo vendere. Vedevo anche solo con un’occhiata che i due erano rimasti affascinati dalle possibilità offerte dalla macchina. In pratica, era già venduta. Aggiunsi, perciò, il tocco finale: — E attenzione, attenzione, la macchina NON HA BISOGNO DI ESSERE PULITA! È completamente, assolutamente, necessariamente, decisamente A-U-T-O-P-U-L-E-N-T-E!
A quel punto mi rimaneva solo una cosa. Come se il fattore mi avesse letto nel pensiero proprio in quel momento, sollevò lo sguardo e mi domandò: — Ma… Sa la custa ‘sta macchina…? Cosa costa?
Eravamo giunti al punto più delicato, per me s’intende. Qualsiasi cosa fossi riuscito a strappare in più sul valore convenuto dai miei superiori, sarebbe stato di mio esclusivo appannaggio. Perciò sparai alto: — Ma… Dunque, vediamo… Se dicessi quattro conigli e una pecora?
Il fattore depose piano la pasta che aveva in mano e si alzò dalla sedia sulla quale si era seduto. Mi guardò bene negli occhi e poi esclamò: — Ohe, l’è mat!
— Be’, non è poi un prezzo così tanto…
— Ma no, ma no… Le posso dare dei soldi, ma mica le pecore.
— Soldi? — esclamai a mia volta agitato, iniziando a raccogliere frettolosamente le parti della macchina disseminate sulla tavola. — Di soldi non se ne parla nemmeno. Non saprei cosa farmene. No, no… Vediamo… togliamo la pecora… diciamo allora quattro conigli, due oche, un piccione e un cesto di uova.

Disegno di Eta Muscià

La trattativa andò per le lunghe, come era nelle previsioni. Ma riuscii, comunque, a portare a casa due conigli, due galline, mezza dozzina di uova, tre bottiglioni di vino e due cespi di insalata rossina. Non era poi male, e l’insalata sarebbe stata tutta mia!
Era già pomeriggio inoltrato quando mi allontanai e ripresi a scendere la stradina polverosa che avevo percorso per arrivare fino a lì. Ero contento, perché finalmente sarei tornato a casa per un bel periodo di riposo. Promisi perfino al fattore che sarei ritornato appena avrei avuto per le mani qualche altro articolo interessante.
Non lontano dalla fattoria avevo nascosto la mia navetta. Nel vano posteriore riposi la merce che avevo avuto in cambio della macchina per la pasta, assieme agli animali, alla frutta, verdura e tutte le altre cose che avevo ottenuto dagli altri fattori durante la settimana trascorsa nel XX° secolo.
Mi misi serenamente al posto di guida e posizionai i comandi per tornare 
a casa: nel XXII° secolo.
Arrivato alla stazione di partenza uscii dall’abitacolo e salutai il compagno che attendeva il mio arrivo per riutilizzare la navetta. Feci rapidamente scaricare tutta la mercanzia racimolata, separando i miei guadagni da quelli dell’azienda e curando che le merci fossero imballate nella giusta maniera per non deteriorarle.
Quella era una fase molto delicata; la merce di scambio che avevo portato a casa valeva ora almeno diecimila volte il suo valore originario. In un secolo in cui ormai non esisteva più niente di naturalmente commestibile ed ecologicamente stabile, un uovo di gallina valeva quanto una casa personale.
Pensai, come ogni volta, per un attimo agli aspetti speculativi di quell’operazione: quanti, in questo XXII secolo, avrebbero potuto anche solo 
odorare la poca merce che noi, piazzisti temporali, raccattavamo nei secoli passati? Di sicuro solo poche centinaia tra i miliardi di abitanti della Terra. E di certo non i più bisognosi…
Con uno sbuffo e una scrollata di capo — bisogna pur vivere, diceva una vocina dentro di me — sigillai il magazzino, finalmente rilassato e contento che anche quella volta tutto si era risolto per il meglio. Ogni volta, giunto a quel punto, i problemi morali generati dai risvolti etici del mio lavoro, lasciavano il posto ai bisogni fisici. Avevo veramente bisogno di un’immediata settimana di riposo.
Andai all’armadietto e indossai una tuta antismog per uscire con sicurezza, così protetto, all’aperto; il cielo plumbeo della città era striato di vapori grigi con venature che passavano dal rosso al viola a seconda dei venti. Come al solito non si intravedeva nessun chiarore: ora ero veramente a casa!
Lo schermo gigantesco che campeggiava sul muro dell’edificio di fronte a quello della mia azienda, attirò per un attimo il mio sguardo. Una scritta lampeggiava in continuazione: AVVISTATO UNO SPRAZZO DI CIELO LIMPIDO PER PIU’ DI DIECI MINUTI AL LARGO DELL’OCEANO… TUTTI I PARTICOLARI SU…
Non finii nemmeno di leggere! Ne avevo avuto abbastanza; non avrei potuto sopportare ancora per molto un cielo 
limpido come quello del XX secolo. Corsi al mio cubicolo di due metri per tre e mi coricai immediatamente sul materassino ad acqua. Con un sospiro collegai la protesi inserita nel gomito al circuito di depurazione del sangue per una sana seduta settimanale di dialisi. Ahhh…!

(© 1987 by Giorgio Ginelli) 

Frammenti dell'Io, Nadia Ginelli

Se senti che ti gira la testa, non ti preoccupare, è una normale sensazione dovuta alla percezione della realtà. Da quando sei nato sei stato preso da un vortice frenetico di avvenimenti, alcuni dei quali messi in moto da te… –>

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