Non credo, tranne rare e particolari occasioni, che uno scrittore quando scrive una storia debba pensare che la sua opera possa diventare un giorno il soggetto per un film.
Sei uno scrittore, stai scrivendo un romanzo. Non è che ti viene in mente di scriverlo come fosse una sceneggiatura. Magari non sai nemmeno cos’è una sceneggiatura.
Poi però il romanzo viene pubblicato. Qualcuno (molti, tanti, pochi, chissà) legge la tua opera e gli viene l’idea di farci un film. Da quel momento si entra in un altro universo, come se fosse un continuum spazio-temporale alternativo…
Cosa succederà della tua opera è più o meno un evento che è ormai è posto nelle mani degli dèi.
Caso uno: sei stato così bravo a scrivere che praticamente oltre a un libro di successo hai impostato la sceneggiatura del film. È il caso di molte opere letterarie importanti e non mi permetto di fare certo un elenco, perché credo che chiunque sia vissuto sul pianeta Terra negli ultimi duemila anni, sia andato da qualche parte a imparare a scrivere e far di conto, per poi ogni tanto trovare il tempo di andare al cinema, l’elenco se lo possa fare da sé.
Se l’opera letteraria ha un impianto solido, per gli sceneggiatori il lavoro di adattamento è una questione di stile. Prendiamo un opera come “Orgoglio e pregiudizio” di Janet Austin (Pride and Prejudice, pubblicato nel 1813). Dal 1940 a tutt’oggi, tra cinema e televisione ha conosciuto 12 adattamenti. Non li ha avuti la Bibbia (!) che tecnicamente è stata portata sullo schermo solo due volte (nel 1920 e nel 1966). Va be’, ok, non è forse l’esempio più corretto, scendiamo allora di qualche gradino e troviamo un autore come Charles Dickens, che di opere letterarie ne ha scritte una gran mucchia, di sicuro più della Austin, e sceneggiatori e registi lo hanno usato in tutte le salse. Scegliamo l’opera forse più filmata: Canto di Natale (A Christmas Carol, un racconto pubblicato nella raccolta The Christmas Books nel 1843). Per arrivare a 8 versioni dobbiamo includere adattamenti come quello del cartone animato della Disney con Topolino, quello di Mister Magoo, quello di Zemeckis del 2009 girato in tecnica mista e (ma sì!) The Muppet Christmas Carol (del quale il povero Dickens sarebbe comunque andato fiero). Oltre a questi abbiamo poi altri cinque o sei esempi di adattamenti che hanno preso spunto da quest’opera, ma che non sono certo la sceneggiatura del racconto.
La questione di stile (che sia per la Austin o per Dickens è uguale) è proprio legata a cosa ci buttano dentro sceneggiatore e regista: ambientazione, costumi, dialoghi, cast. Un amalgama di aspetti in movimento dentro i rigidi binari del “canovaccio” che ha scritto quel povero cristo dell’autore. E che possono esaltare o far infuriare gli spettatori a seconda del loro personale punto di vista. In ogni caso, se porti sullo schermo un libro, stai dando forma a opere che vivono di lettere dell’alfabeto; proiezioni mentali dello scrittore che, quando ne ha le capacità, te le fa immaginare nella testa. E ognuno immagina come vuole, i colori, gli odori e i personaggi. Al punto che un adattamento “fedele” non è mai quello che uno s’aspetta.
Il che ci porta al caso due: hai scritto una storia talmente pregna di contenuti, che te l’hanno ribaltata come un guanto almeno due e tre volte per farci film, sceneggiati e serie TV.
Credo che questo sia comunque il destino migliore a cui una storia scritta può andare incontro. L’adattamento diventa così un vero e proprio arricchimento dell’opera letteraria, affiancandola o, se è il caso, superandola. Prendiamo un romanzo americano del 1968, neanche troppo lungo, neanche il migliore, di un’autore che ha scritto parecchio e che parecchio è stato saccheggiato dal mondo di celluloide. L’autore si chiamava (pax animae) Philp Kindred Dick e il romanzo in originale si titola Do Androids Dream of Electric Sheep? e sarà poi portato sullo schermo da Ridley Scott con il titolo Blade Runner. Una pellicola del 1982 che ha avuto la bellezza di sette (sì, 7) versioni, le più importanti delle quali sono l’International Cut (1982) ed il Director’s Cut (1992): alla fine, nel 2007, l’American Film Institute lo ha pure posizionato al 97º posto nella classifica AFI’s 100 Years… 100 Movies. Prossimamente, a questo punto, entrerà a fare parte del patrimonio dell’umanità.
La grandiosa operazione messa in atto da Ridley Scott, va al di là del semplice adattamento. La sua capacità nel vedere nel romanzo breve/racconto lungo di Dick (neanche poi tutto, in quanto il film è tratto dalla seconda parte della storia!) un’opera come Blade Runner, non è più solo questione di stile. Vuol dire avere la capacità di reinventare la storia, amplificandone il messaggio, proseguire dove lo scrittore si era fermato, dando luce alle sue parole su carta. Il cinema, da questo punto di vista, è più penetrante. Il cinema ha una capacità subliminale enormemente più grande della parola scritta, e Ridley Scott lo ha saputo sfruttare al cento per cento, perché aveva le idee chiare su cosa voleva dire.
Strada facendo, ci troviamo così al caso tre: ci sono quelli che non sono proprio in grado di fare qualcosa di buono con le opere letterarie.
Dicevamo di come uno scrittore mica può immaginare che l’opera che sta scrivendo diventerà un film, quindi l’opera di adattamento di un testo rischia di scontrarsi con ovvi problemi oggettivi, oltre che a una questione di stile pura e semplice. Il che dà luogo ad almeno un paio di modalità con cui si può affrontare l’adattamento.
Il caso più grossolano al quale si può andare incontro è però quello di un’opera scritta che nel tempo viene bistrattata più e più volte dai signori della celluloide. Senza che lo scrittore iniziale ne abbia minimamente colpa, povero lui.
Poniamo il caso che negli anni ’40 uno scrittore americano abbia scritto un raccontino interessante come idea generale; un po’ debole sul piano stilistico, perché l’autore in questione non ha poi una grande scuola alle spalle, e il racconto del resto viene pubblicato su una rivista pulp di quegli anni (l’aggettivo pulp si riferisce alla carta su cui erano stampate le riviste, ma a volte poteva essere riferito anche all’insieme dei testi che venivano pubblicati, ndr).
Vai a vedere, e questa ipotesi è in effetti divenuto realtà. Titolo del racconto: Farewell to the Master. Autore: Harry Bates. Non un racconto eccezionale, certamente, ma con un’idea molto forte che praticamente solo sul finale, e per finale intendo l’ultimo paragrafo, salta fuori e che dà anche un senso al titolo del racconto (il quale assume in Italia perfino una corretta traduzione, essendo pubblicato come “Addio al padrone”: già questo un evento, ndr). In due parole: una navetta aliena compare sulla Terra, i terrestri uccidono l’occupante biologico, il gigantesco automa dopo un certo periodo di immobilità trova il modo di farlo risorgere e se ne vanno minacciando di terresti di distruzione se continuano di questo passo.
Non succede che nel 1951 alla 20th Century Fox a qualcuno viene l’idea di farci un film? Titolo: The Day the Earth Stood Still. Che non c’entra un tubo con l’originale e come titolo non è nemmeno un granché; perfino nella traduzione italiana sono stati forse più bravi. Sto parlando infatti del film che da noi è arrivato come “Ultimatum alla Terra”. E di quello il film tratta, mettendo l’accento su uno dei temi del racconto. Non certo sull’addio al padrone. Anzi, stravolgendo proprio gli equilibri che il racconto aveva fra i protagonisti.
Non paghi di ciò, nel XXI secolo, sempre alla alla 20th Century Fox (sob!), rispolverano il film (e perciò il racconto di Bates) mettendo in scena un’ordalia ecologista che vede l’umanità schierata sempre contro gli alieni che vogliono farci pagare il nostro style life. Magari hanno anche ragione: nell’universo ci sono così pochi pianeti (in termini percentuali) in grado di ospitare la vita, che veramente ci stiamo dimostrando una razza di coglioni senza speranza. E questo è un fatto, ma ancora una volta poco o in parte ha a che fare con il racconto. Che vi invito a cercare ed andare a leggere; lo trovate in “Le grandi storie della fantascienza vol.2”, ed. Bombiani. Se invece siete impazienti andate avanti a leggere.
La vera differenza nel racconto di Bates non è legata alle situazioni o alla dinamica dell’azione, in quanto si tratta di un racconto scritto e pubblicato ancor prima che gli americani avessero problemi a Pearl Harbor. Se ci faccio un film, cerco di renderlo comunque originale e ci metto cose che so per certo essere di sicura presa sul pubblico, dato che sto entrando in piena Guerra Fredda. Le differenze ci stanno e sono anche lecite.
No, la vera e straziante differenza sta nel fatto che il racconto finisce ponendo l’accento sul fatto che il reale esponente di questa razza aliena che viene sulla Terra a fare da censore, non è il tizio che viene sparato appena mette il piede sul suolo terrestre, ma bensì il gigantesco automa che rimane congelato e immobile agli occhi di tutti, finché non trova il modo di far “resuscitare” il fido attendente. E poi se ne va dicendo a tutti noi che no, così non va mica bene.
Insomma, come se noi andassimo su Vega, ci uccidessero il cagnolino e noi finché non troviamo il modo di farlo rivivere stiamo lì buoni buoni e poi ce ne andiamo dando solo una lavata di capo ai vegani. L’alienità sta proprio in questo; l’essere superiori è proprio prendersi cura delle “razze minori”.
Mi sembra di ricordare che qualche mese fa sia morto un tassista per le randellate a seguito di un caso simile; ma di sicuro, povero sventurato, non aveva investito il cane di un alieno.