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“Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo e insignificante sole giallo. A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta azzurro-verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da polso digitali siano un’ottima invenzione.
Questo pianeta ha, o meglio aveva, un fondamentale problema: la maggior parte dei suoi abitanti era afflitta da una quasi costante infelicità. Per risolvere il problema di questa infelicità furono suggerite varie proposte, ma queste perlopiù concernevano lo scambio continuo di pezzetti di carta verde, un fatto indubbiamente strano, visto che a essere infelici non erano i pezzetti di carta verde, ma gli abitanti del pianeta.”
Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 1979 (traduzione di Laura Serra).
La domanda alla quale nessuno può, e forse potrà mai, rispondere è: cosa stiamo imparando dell’emergenza pandemia?
Perché se è vero che da qualsiasi evento bisogna sempre imparare qualcosa, è anche vero che ciò non è sempre facile e immediato.
Televisione e giornali ci riportano confuse reazioni: dalla gara alla solidarietà, alla preoccupazione per il futuro economico del paese, dalla rassegnazione per la reclusione forzata, alle aspre critiche su chi non ha fatto abbastanza o ha ecceduto con le misure.
Tutto importante. Tutto vitale.
Di sicuro, coloro che si sentono troppo poco su questi argomenti, sono gli operatori che in prima linea gestiscono l’emergenza, principalmente negli ospedali. Sono forse i più preoccupati, sicuramente i più coscienti; forse per quello non parlano, o se lo fanno non accade pubblicamente. La loro duplice natura (unti e untori) li rende cauti e forse spaventi.
L’ansia di informazioni nella nostra società non ha portato benefici immediati. Anzi. L’eccesso di informazioni ha confuso ancora di più coloro che lo sono per natura.
Va da sé che alcune categorie sembrano sparite dalla realtà sociale; i profughi o anche solo i senzatetto, che fino a qualche settimana fa primeggiavano nei servizi televisivi e riempivano pagine dei quotidiani, ora sembrano oscurati e svaniti.
I destini di altre categorie di persone sono invece lasciate alla pura volontà delle singole famiglie, quelle di coloro che devono gestire l’emergenze nell’emergenza; sto pensando ai disabili, psichici e fisici. Non sempre per queste famiglie valgono le regole e i limiti imposti, e ognuno deve agire come può.
La questione è capire se il problema è stare rinchiusi in casa, in questa falsa semi-solitudine, oppure accettare il cambio delle proprie abitudini che si prospetta all’orizzonte.
Di sicuro dobbiamo essere in grado di gestire questo cambiamento, quale che sia. Senza formule valide per tutti, ma ognuno con la sua misura. E soprattuto smettere di credere che tutto sia fisso e immutabile; il nostro pianeta è in continua evoluzione e noi rappresentiamo un minuscolo evento in un sistema oltremodo lungo e complesso.
Così come gli amori si misurano sulla lunga distanza, anche la nostra capacità di reazione alla pandemia saranno temprati dal tempo e dalla nostra capacità di mantenere i nervi saldi; “…i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.”
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Lettura consigliata
John Christopher, Morte dell’erba, A. Mondadori 1956.
David Quammen, Spillover – L’evoluzione delle pandemie, Adelphi 2014.
Visione consigliata
28 giorni dopo, regia di Danny Boyle, 2002.
Ascolto consigliato
Ludwig van Beethoven, Fidelio, 1803-05.