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copFrassinelliHo visto il film Cloud Atlas quando è uscito nelle sale italiane e l’ho giudicato un film elegante. Nel complesso risulta forse un po’ eccessiva e maniacale la ridondanza degli attori, nel quasi caotico sviluppo della trama, ma alla fin fine è una produzione dei fratelli Wachowski, mi sono detto. Per cui va bene così.
Certamente chi non è abituato a lasciarsi trasportare dall’ambiguità delle opere di sci-fi, deve aver fatto fatica ad apprezzare il film, mi sono anche detto. In effetti, nelle settimane successive, nessuno ha gridato al miracolo e al genio; anzi, i commenti dei “puri” appassionati di cinema sono stati in qualche caso abbastanza impietosi. Quegli degli appassionati di sci-fi sono comunque stati abbastanza insipidi – anche perché forse non si tratta di un opera di genere.
Il film è l’adattamento dell’omonimo romanzo di David Mitchell, alla cui lettura sono passato qualche settimana dopo la visione del film. Si tratta di un ottimo romanzo, che si è trovato tra il 2004 e il 2005 in finale per diversi riconoscimenti letterari, sia in ambiente mainstream che sci-fi (il Nebula e il Clarke), senza peraltro riuscire a spuntarla.
L’ho letto con calma e piacere, perché è un libro colto, articolato non solo dal punto di vista della trama, ma anche dal punto di vista stilistico. Credo che questo aspetto sia il suo vero punto di forza. Mitchell è un autore britannico molto bravo, che già in altri romanzi ha sperimentato l’espediente di storie che si intrecciano; non è un autore di sci-fi, forse può essere considerato un autore di romanzi storici per come si documenta e per il tipo di trame che sviluppa.
E alla fin fine ho deciso che il film diretto dai fratelli Lana e Andy Wachowski e da Tom Tykwer, non è per niente bello. Anzi, è un adattamento fuorviante rispetto al romanzo e non rappresenta per niente un’opera significativa.
Mi è accaduto – all’inverso, però – ciò che nel 1984 è occorso a tutti gli appassionati che sono corsi a vedere il Dune di David Lynch: spaesamento e delusione. In quel caso mi ero potuto leggere con calma tutto il ciclo scritto da Frank Herbert fra il 1965 e il 1985, prima di poter vedere il film, e il senso di spaesamento era dovuto al non riconoscere il primo capitolo della saga in quello che è stato messo in scena da Lynch. Troppi i tagli, le semplificazioni che rendono oscuro e deludente paragonare libro e film.
Con Cloud Atlas ho vissuto una sindrome del tutto simile: cosa c’entra, mi sono chiesto a posteriori, la ricchezza stilistica di Mitchell con il piattume cinematografico dei Wachowski? Certi tagli e cambiamenti messi nella trama sono veramente banali e inconcludenti; se non fosse per la bravura degli attori – Tom Hanks, Hugh Grant, Halle Berry e Jim Broadbent, in primis – sarebbe perfino un film lungo e noioso.
Mitchell, nella prefazione all’edizione italiana del libro edita da Frassinelli, analizza la questione adattamento premiando l’operazione dei tre registi: “può essere un disastro non per troppa infedeltà, ma anzi per troppa fedeltà: perché fare tutti quegli sforzi per produrre un audiolibro con le figure?” (David Mitchell, Cloud Atlas, ed. Frassinelli/Sperling & Kupfer ed., 2005/2012, pgg. VIII). Sono anch’io d’accordo con lui nel dire che il trasformare la struttura a matrioska del libro in un mosaico sia stata un’idea ingegnosa, ma a quello dobbiamo fermarci purtroppo.

Il diario del Pacifico di Adam Ewing (fine XIX secolo)

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Che ne è stato di tutta la ricerca sulla storia delle isole Chatham? Dubito fortemente che chiunque abbia visto solo il film capisca il senso di questa domanda. Ma il senso di questa narrazione è fortemente legato al viaggio e all’esperienza del notaio Adam – che nel film è inspiegabilmente divenuto avvocato – e alla crescita alla quale è sottoposto a causa di ciò che gli accade. È un viaggio iniziatico che lo porta a maturare un’ideale preciso.

“[…] la storia non ammette leggi: solo esiti.
Da cosa sono determinati gli esiti? Dalle azioni malvagie e dalle azioni virtuose.
Da cosa sono determinate le azioni? Dalla fede.
La fede è al tempo stesso il premio e il campo di battaglia, sia all’interno della mente sia nello specchio della stessa, ovvero il mondo. […] Perché dovremmo lottare contro l’ordine «naturale» […] delle cose?
Perché? Per questo motivo: un bel giorno, questo mondo dominato interamente da predatori andrà incontro all’autodistruzione. […] Nel singolo, l’egoismo abbruttisce l’anima; nella specie umana, egoismo significa estinzione.”
(cif. op. cit. pgg. 595-596)

Ciò che rimane nella struttura cinematografica dell’episodio che apre e chiude il romanzo, è un medico inglese pazzo che avvelena un giovane avvocato americano, il quale è salvato da un selvaggio maori grazie al debito d’onore che si era instaurato tra i due: il maori era fuggito dall’isola Chatham, si era imbarcato sulla nave ed è salvato dall’essere giustiziato come clandestino solo grazie al tempestivo intervento di Adam. Happy end con il ritorno a casa, abbraccio con la moglie e duro confronto con il suocero, partenza della coppia verso l’orizzonte abolizionista con l’eco delle sue ultime parole nelle orecchie: “«[…] capirai che la tua vita altro non è stata che una piccola goccia in un oceano sconfinato!» Ma cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?” (cif. op. cit. pg. 597)
Totalmente cancellata tutta la parte sull’isola Raiatea e l’incontro con la comunità del predicatore Horrox, che nel film compare perfino, ma a cui nessun spettatore può attribuire un ruolo sensato.

Lettere da Zadelghem (inizio XX secolo)

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L’epistola è lo stile scelto da Mitchell per l’episodio che fornisce il pretesto del titolo: “L’atlante delle nuvole” è un sestetto per archi scritto dal giovane Robert Frobisher nel periodo in cui è a servizio dell’anziano compositore Vyvyan Ayrs. Le lettere sono quelle scritte da Robert a Rufus Sixsmith, l’amante che è stato obbligato a lasciare fuggendo in fretta e furia da una camera d’albergo, ma con il quale mantiene ben stretto il cordone ombelicale.
Nel film vediamo il giovane in balia delle bizze del famoso compositore Ayrs, una fugace parentesi con la giovane moglie di lui liquidata come tecnicismo amatorio inteso alla sopravvivenza, un azzardo omosessuale nei confronti dello stesso Ayrs che naufraga con la fuga di Robert e il suo fragoroso suicidio a Bruges dopo aver scritto l’ultima lettera all’amato Rufus.
Del tutto scomparsa l’ambiguo ed enigmatico atteggiamento del giovane Robert Frobisher nei confronti della vita; quello sì che avrebbe dato senso al titolo del romanzo – e del film.
Robert innamorato di Rufus, perdutamente sembra, che è costretto ad abbandonare in fretta e furia, ma che tiene legato a sé con le lettere; Robert invaghito prima della giovane moglie di Ayrs, ma poi innamorato della loro giovane figlia Eva – “[…] sa che sono terra incognita e mi esplora senza fretta, come te un tempo. Perché è magra come un ragazzo. Perché sa di mandorle e d’erba di prato.” (cif. op. cit. pg. 531) -, la quale poi lo rifiuterà per un rampollo svizzero dell’alta nobiltà europea; Robert che fugge a Bruges per poter finire di scrivere il sestetto e che si suicida in una sordida camera d’albergo sperando che il suo gesto estremo non sia frainteso. “Non lasciargli dire che mi sono ucciso per una delusione d’amore, Sixsmith, sarebbe troppo ridicolo. Sono stato infatuato di Eva Crommelynck per un breve istante, ma in fondo sappiamo tutti e due chi è il vero amore della mia vita.” (cif. op. cit. pg. 550)
La frammentazione della storia operata dai registri induce poi ad una serie di stonature; anche se sono funzionali alla sceneggiatura, non hanno un riscontro nel testo o addirittura operano delle storpiature senza un evidente bisogno. Nel film, ed esempio, vediamo un Frobisher che ruba una bicicletta per raggiungere Zadelghem, ma nel libro abbiamo un giovane compositore che incontra un poliziotto il quale gli presta una bicicletta per raggiungere la casa di Ayrs; un poliziotto che incontrerà nuovamente alla fine dei suoi giorni e che lo avvertirà del cerchio che si sta stringendo attorno alla sua sregolata esistenza.
Che ne è del sogno a occhi aperti che conduce Robert a scrivere il suo sestetto? Un sogno che nel romanzo lega insieme tutte le lettere, ma che nel film forse si è perso fra le nuvole.

Mezze vite. Il primo caso di Luisa Rey (fine anni ’70)

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Non deve essere stato facile frammentare e ridurre un thriller come l’episodio della giornalista Luisa Rey che incoccia nella vita di Rufus Sixsmith, con il suo terribile e ingombrante segreto. I tre registri hanno fatto del loro meglio nell’adattamento, tralasciando quegli elementi di contorno legati ad alcune figure secondarie nella storia ambientata in un’ipotetica città americana e limando le parti che potevano della storia. Peccato, perché gli spettatori si sono persi un po’ di descrizioni argute della società di quel tempo che coronano gli avvenimenti che vedono la giovane giornalista di gossip trasformarsi in investigatrice e a rischiare la vita per mettere a nudo un sordido affare basato sulla pericolosità della scienza, mentre il povero scienziato viene eliminato in una camera d’albergo in un triste epigono del destino dell’amato Robert Frobisher. Per esigenze di sceneggiatura, certamente, viene tagliata tutta la fuga spasmodica di Sixsmith dal suo assassino così come alcune azioni sono state ribaltate di sana pianta – come l’incontro tra Luisa e l’ingegner Isaac Sachs: nel libro è lei che scopre lui a frugare nell’ufficio di Sixsmith, mentre nel film è esattamente l’opposto. La fretta, si sa, poi è cattiva consigliera e alla fin fine, nel film, non si capisce poi perché l’ingegnere si innamori della giornalista, ma nel libro si coglie tutto il respiro. Così come nel libro è necessario che Luisa si faccia passare per la nipote di Sixsmith, mentre nella sceneggiatura ciò non accade e svaniscono un bel po’ di colpi di scena in omaggio alle esigenze di copione. Svaniscono anche gli ambientalisti con cui Luisa entra in contatto nelle sue indagini e che rivestono un ruolo abbastanza importante dopo che lei subisce l’incidente causato dal sicario che ha il compito di ucciderla; il dialogo tra Luisa e Hester van Zandt (cif. op. cit. pg. 140-141) avrebbe portato il film lontano dai voleri dei registi, sicuramente, mettendo ulteriore carne al fuoco che difficilmente avrebbe potuto essere digerita dagli spettatori.

La tremenda ordalia di Timothy Cavendish (XXI secolo)

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Sarcasmo e ironia sono la vena e l’arteria di questo episodio. Difficile stabilire se il coriaceo editore Cavendish che scrive le sue memorie possa assurgere al trono di beniamino del pubblico, ma di sicuro il suo atteggiamento è ciò che fa di questa storia pane per i denti di qualsiasi regista.

“Un trio di ragazzine vestite da Barbie Puttana mi si sono avvicinate pescando e strisciando a strascico per tutta l’ampiezza del marciapiede. Sono passato in strada per evitare una collisione. Ma mentre ci avvicinavamo, hanno tolto la carta ai loro sgargianti leccalecca e l’hanno lasciata cadere. Il mio senso di benessere bombardato. Voglio dire: eravamo accanto a un cestino! Tim Cavendish, il cittadino disgustato, ha esclamato alle criminali: «Perché non raccattate le cartacce?»
Una ha ringhiato: «Se no?» guardando dietro di me.
Maleducate scimmiette: «Se no, niente», ho detto, dietro la spalla. «Vi ho solo detto…»
Le ginocchia si sono piegate e poi il marciapiede ha colpito la guancia, facendo riaffiorare un vago ricordo di un incidente sul triciclo, prima che il dolore tagliasse fuori qualsiasi cosa oltre a se stesso. Un ginocchio aguzzo mi ha spiaccicato la faccia dentro un mucchio di foglie. In bocca sentivo il sapore del sangue. Il mio polso di sessanta e qualcosa è stato torto a novanta a gradi di agonia e l’orologio Ingersoll Solar non era chiuso. Mi ricordo un miscuglio di oscenità antiche e moderne, ma prima che la le ladre mi fregassero il portafoglio, la musica di un furgoncino del gelato che suonava La ragazza di Ipanema le ha fatte scattare via come vampire un minuto prima dell’alba.”
(cif. op. cit. pg. 165-166)

Non cercate traccia di questa scena nel film, perché non è stata messa. Tutto l’episodio è stato condensato per poter essere facilmente frammentato, puntando principalmente sulla ridicola reclusione forzata di Cavendish alla Aurora House e alla rocambolesca fuga. Storia che diventa fiction e che inframmezzerà l’esistenza della protagonista dell’episodio più notevole del libro che segue a ruota.

Il verbo di Sonmi-451 (XXII secolo)

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Se dobbiamo cercare sci-fi nel romanzo di Mitchell, la possiamo trovare nell’episodio ambientato in un futuro non specificato, in una Seul irriconoscibile anche per quelli che vivono in Corea. L’efficace struttura narrativa è strutturata sulla forma di intervista e in parte i registi hanno cercato di mantenerla, ma si sa che un film tende a essere specifico, come ci ricorda lo stesso Mitchell nella prefazione già citata, e che “le parole possono solo dire: ecco perché non sono immagini” (cif. op. cit. pg. X).
Così facendo i registi si sono persi per strada il pezzo più bello del romanzo. Sì, perché il clone Sonmi-451 interrogato da un anonimo archivista, o meglio la sua ascesi da artificio a purosangue rappresenta il momento più interessante di tutto l’atlante.
Attraverso le domande mai banali dell’archivista si percorre tutta l’esistenza del clone, la sua condizione di servente di una mangeria, la fuga organizzata dall’Unione e i mesi trascorsi al campus universitario, l’istruzione, il viaggio nel mondo reale e la scoperta della verità sul destino dei cloni, fino alla rivolta e alla registrazione della dichiarazione che inciterà il popolo alla ribellione. Fino alla presa di coscienza dell’essere stata la protagonista di una cospirazione in parte pianificata a tavolino.

Ma se sapevi già… di questa cospirazione, perché ti sei prestata?
Perché il martire si offre al suo giuda? Perché intravede un obbiettivo più alto.
Qual’era il tuo?
Le Dichiarazioni. I Media hanno inondato Nea So Copros con i miei Catechismi. Ogni allievo di Nea So Copros conosce le mie dodici “blasfemie”. Le guardie mi dicono che si parla persino di un “Giorno della Vigilanza” nazionale contro gli artifici che mostrano tracce delle Dichiarazioni. Le mie idee sono state ripetute miliardi di volte.”
(cif. op. cit. pg. 414)

Più della metà degli avvenimenti narrati nel romanzo nel film non sono stati riversati, anche il lungo periodo che lei trascorre all’università di Taemosan e il viaggio a Pusan tra gli untermensh. Un po’ come raccontare la Bibbia e tralasciare del tutto l’esodo del popolo ebraico… Va be’, c’è chi potrebbe pensare di farlo.
I registri hanno preferito indugiare su sequenze d’azione, gratuite anche se accattivanti, molto in sintonia con le loro precedenti opere cinematografiche. Del resto è un film, anche bello lungo, e se non ci metto delle scene adrenaliniche rischio di sentire gli spettatori che russano. Ne paga le conseguenza anche la figura dell’archivista, che chiaramente nel libro ha una personalità indagatrice che emerge man mano che pone le domande all’artificio prima della sua uccisione, ma che nel film risulta abbastanza patetico e insipido. Come insipidi sono tutti gli attori occidentali truccati con gli occhi a mandorla per sembrare cloni mal riusciti di se stessi.

Sloosha Crossing e tutto il resto (XXIII secolo)

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Il corpo centrale del romanzo è dedicato senza interruzioni all’episodio ambientato nel futuro estremo, in una Terra rappresentata dalle isole Hawaii pressoché irriconoscibili e popolata da primitivi agglomerati urbani in uno scenario post-apocalittico e governati da nuovi o rinnovati miti derivati dalla storia recente. Su tutti incombe ciò che viene definita semplicemente la Caduta; solo la civiltà ultra tecnologica sopravvissuta dei Prescienti rimane a testimonianza dell’antica civiltà degli Antichi. Di sicura efficacia risulta essere l’espediente stilistico adottato da Mitchell – ed egregiamente supportato da Luca Scarlini e Lorenzo Borgotallo, traduttori della versione italiana del romanzo – nel dotare le genti future di una sorta di decadenza del linguaggio, caratterizzato dalla trasformazione di avverbi, la storpiatura di pronomi e di altre particelle dei dialoghi.

“Senti, c’avevo un pancimonio bestiale qual giorno, perché avevo mangiato una coscia di cane storpio a Hanokaa, e stavo a gambe larghe tra i carpini a monte del burrone, quando all’improvviso, gli occhi puntati su di me. «Chi va là?» ho gridato, e il muro di cespugli m’ha tagliato la voce.
Oh, sei nella merda, figliolo, ha mugugnato il muro di cespugli.
«Chi sei?» ho urlato, non troppo forte. «C’ho l’arnese, non scherzo!»
Sopra la mia testa una voce, ‘Chi sei tu!’, figliolo, Zachry il Coraggioso o Zachry il Fifone? Ho alzato gli occhi ed ecco il buon Vecchio Georgie a cavalcioni su un albero marcio, un ghigno furbacuto negli occhi affamati.
(cif. op. cit. pg. 283)

Si tratta in realtà di un episodio molto complesso e anche di questo solo una minima parte ha trovato posto nella sceneggiatura. Ciò che è svanito non è solo la sottile descrizione di tradizioni, cultura e religione dei Valligeri, dei loro rapporti commerciali con i Prescienti, ma anche i dubbi e le insidie a cui è sottoposto il valligero Zachry all’arrivo della presciente Meronym. Solo accennata è la lotta interna del guardiano di capre Zachry, che da giovane ha dovuto assistere all’uccisione del padre e al rapimento del fratello da parte della selvaggia tribù dei Kona in una delle loro frequenti scorribande.
Nella frammentazione del film questo episodio in forma di inedito epilogo è messo sia in apertura e in chiusa, come a voler dare un senso compiuto a tutta l’epopea, basata sulla volontà dell’uomo di produrre cambiamenti quando necessario, che è poi la giusta chiave di lettura del romanzo.

La struttura a matrioska del romanzo

La struttura a matrioska del romanzo

La cometa e i testimoni
Gli elementi che attraversano e saldano insieme gli episodi – del libro come del film – sono almeno due: una serie di artefatti e la voglia a forma di cometa che adorna la pelle dei diversi protagonisti delle storie; una sorta di silenzioso testimone genetico passato in eredità, e che nel film viene rafforzato – a volte anche con esiti ridicoli – dalla somiglianza delle fattezze somatiche dei protagonisti dei diversi episodi.
Mitchell ha inserito anche l’espediente di far scivolare di episodio in episodio degli artefatti provenienti dal passato, che hanno il compito di saldare ulteriormente le esistenze dei protagonisti e di trasmettere un ulteriore testimone narrativo. L’artefatto del primo episodio è il diario scritto dallo stesso protagonista che ritroviamo tra le letture del compositore del secondo episodio, il cui sestetto è ritrovato come musica dalla giornalista del terzo, mentre l’editore protagonista del quarto nella sua ordalia legge il manoscritto dell’avventura della giornalista, ma poi diventa lui stesso protagonista di una fiction che accompagna l’esistenza del clone protagonista del quinto episodio, il cui testamento filmato ritroviamo nel sesto e conclusivo episodio.
Una serie di passaggi fluidi, sottili, che non invadono eccessivamente la trama e sia nel romanzo che nel film mantiengon la sua forza di coesione nei caotici avvenimenti che affliggono i protagonisti.
La cometa, invece, contraddistingue coloro che hanno la forza di produrre dei cambiamenti. Un testimone silenzioso, un segno del destino, un karma tatuato. La cometa come simbolo, è da sempre nella storia dell’umanità, sia come annuncio del cambiamento o partatrice di vita, in ogni caso qualcosa di notevole, di inspiegabile, di misterioso.
L’epopea dell’uomo moderno inanella gli avvenimenti con il karma delle persone: la storia non ammette leggi, solo esiti.

Giorgio Ginelli, 2013

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