Si racconta che i soldati americani inviati al campo di Dachau nell’aprile del ’45 si trovarono nel dilemma di come riuscire a non provocare più danni di quelli perpetuati dai nazisti. Nel senso che il livello di malnutrizione dei detenuti era talmente elevato che fu impossibile prendere le migliaia di scheletri ambulanti che ciondolavano nel campo di concentramento e metterli semplicemente a tavola per rifocillarli; la loro fisiologia avrebbe totalmente rifiutato l’ingestione di alimenti solidi. Si dovette procedere perciò per gradi al fine di non provocare devastanti danni da malassorbimento (la disbiosi in primis).
L’intestino umano – ma anche quello animale, pur in misura differente – è ricco di flora batterica che serve anche alla salvaguardia della barriera intestinale, a sostenere le difese immunologiche, a promuove la digestione e l’assorbimento, oltre a produrre vitamina K e vitamina B12. Insomma, ci fa stare bene, e se uno non mangia tutta questa microflora mica prolifera. Anzi.
Lo sapeva bene anche Proust che nella recherche infarcisce le pagine di pranzi e cene, consacrando così l’importanza della funzione della nutrizione per l’uomo, perennemente assillato dalla necessità che per sopravvivere deve nutrirsi.
Ciò che affascina in Proust è il senso di nullità che traspare dalla sua opera – intendo la Recherche nel suo insieme. ovviamente – e che prima o poi il lettore incontra nelle tremila pagine; magari lo sfiora delicatamente e passa oltre, oppure lo impatta violentemente senza più abbandonarlo. Perché il tempo deve essere perduto? E cos’è infine il tempo? Che ruolo gioca la memoria? Be’, insomma, uno prima o poi nella lettura dei sette volumi, finisce che se lo chiede: è il caso che io impieghi il mio tempo diversamente?
A dar retta a Nietzsche, del resto, la civiltà moderna è in perenne bilico tra gli atteggiamenti razionali ed equilibrati e quelli dionisiaci, istintivi e irrazionali. Per cui anche interrompere la recherche per andare a far quattro salti e trasgredire a ogni ordine costituito, fa parte della ricerca dell’illuminazione.
Di nichilista in nichilista si arriva poi magari a Dostoevskij, che in fatto di atteggiamenti ribelli ne sapeva raccontare di belle (di storie, intendo) se è vero che lo definivano “artista del caos”. Ma anche lui era alla ricerca di qualcosa, tipo la verità.
Insomma, non c’è da stupirsi se questi tre autori facciano parte della formazione culturale di molti; trattano di temi importanti, che uno comunque nella propria vita ha già affrontato o che prima o poi deve affrontare.
Fa quasi tenerezza dunque, scoprire che anche un artista del calibro di Vasco Rossi ci sia arrivato; il nostro si è infatti premurato di diramare l’informazione che, sul suo comodino, in questi ultimi tempi, i tre autori appena menzionati non mancano mai. Anzi, sono diventate le sue letture preferite.
Spero che presto incontri qualcuno che gli chiarisca che, letture come quelle, rischiano di essere come il cibo per gli internati di Dachau: il malassorbimento può fare più danni che l’astinenza.
Non me me voglia il Blasco, che come cantautore rimane tra i miei preferiti, se lo tiro in ballo per la seconda volta in poco tempo, ma se l’è cercata lui. E non me ne vorrà di sicuro anche perché quest’articolo non lo leggerà mica.
Ma sta di fatto che anche lui come molti ha abboccato all’amo e ha deciso di mettere le didascalie alle foto delle propria vita; passi per il mio di album dei ricordi, che nessuno sa chi sono e se finisce in mano agli alieni che faranno gli scavi archeologici sul terzo pianeta del sistema solare, tra qualche migliaio di anni, se io metto le didascalie alle mie foto semplifico loro il lavoro. Ma un artista famoso: boh…?!
A questo punto ho forse sbagliato a pensare che Vasco si considerasse un artista, perché se fosse vero farebbe parlare la sua arte e basta. Se invece trova il tempo di “dire la sua” sulla sua vita (rif. “La versione di Vasco”, ed Chiarelettere, 2011), prendendo a citare aforismi di autori ridondanti che non fanno parte della sua esperienza culturale, significa che c’è qualcosa che non va. Significa che ha paura di subire la stessa sorte del brontosauro, il sauro che non esiste, ma che orami è entrato nell’immaginario comune. Prima che i paleontologi facciano tremendi errori, sembra si sia detto, è meglio che fornisca io tutti i dettagli per l’identificazione e la catalogazione delle mie spoglie. Roba da ragionieri; il diploma dell’Istituto Tecnico Commerciale del resto ce l’ha (sigh!). Ma non mi fermo mica lì; intanto che ci sono faccio anche capire che mi son messo a sfogliare libri, visto che così fan tutti.
Pensandoci, però, quello che ho detto fino ad ora non è mica vero. Perché non è mica un libro vero quello che Vasco Rossi ha dato alle stampe. Di quelli che uno si mette lì e lo progetta – mica da solo, si può fare anche aiutare, gli editor delle case editrici esistono anche per quello – e poi comincia a scriverlo pagina dopo pagina finché non giudica che arriva il punto di scrivere “Fine”. Non è mica vero perché quello che ha raccolto Vasco Rossi è uno zibaldone di pensieri.
Ora, per carità, nessuno si alteri. Lo zibaldone è diventato nella prima metà dell’ottocento un tipo di composizione che ha affascinato persino il Leopardi. Per cui non è mica una cosa di cui ci si deve vergognare, scrivere uno zibaldone. Anzi, per il Leopardi, il suo di zibaldone è servito a farci capire meglio i Canti e le Operette morali. Per cui bravo il Blasco che ha fatto suo il concetto è ha dato alle stampe i suoi “pensieri da provocatore”. Probabilmente ci sta.
Così come ci sta che si definisca un “social rocker”, spero non solo in onore della scoperta dell’esistenza di Facebook fatta da lui qualche mese fa, ma piuttosto in virtù del fatto che le sue canzoni un impatto sul sociale di un certo tipo l’hanno pur avuto. Altrimenti è solo il caso di dire che il brontosauro Blasco è passato anche lui al 2.0, non tanto perché sa cosa ci può fare, ma solo perché se non lo fai c’è il rischio che non ti caghi più nessuno.
Scordando che gli artisti devono mantenere in una certa misura l’ambiguità. Sono i ragionieri che non lo devono fare.

(Articolo pubbicato sul n.32 di Io Come Autore)

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