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Una tradizione tutta made in Italy

Nel novero delle tradizioni per il periodo natalizio l’Italia si è ritagliata un angolo del tutto personale che prende il nome di Befana, la nonnina che nella dodicesima notte porta doni ai buoni e carbone ai cattivi. La stessa notte che affascinò Shakespeare al punto da utilizzarla per una delle sue più celebrate opere teatrali la cui allusione al periodo natalizio è praticamente però solo nel titolo (Twelfth Night, or What You Will, 1599-1601) e in un verso della parte introduttiva: “La favola è nuova e non altronde cavata che della loro industriosa zucca onde si cavorno anco, la notte di beffana, le sorti vostre […]”. La Befana era per Shakespeare e il suo tempo già un mistero, e così è rimasto: un personaggio misterioso che da secoli attraversa la credenza popolare, ma che non ha mai attecchito fuori dai nostri confini.
La tradizione folcloristica della Befana non si sa nemmeno bene da dove origini. Forse dalle tradizioni pagane legate al mondo agrario dell’età romana quando si celebrava, appunto fra il solstizio invernale (il 6 gennaio, appunto) e l’inizio dell’anno lunare, la figura di Madre Natura; nelle dodici notti la dea Diana accompagnava queste figure femminili che volavano sui campi appena seminati per propiziare i raccolti. Oppure ancora più indietro alle dee anatoliche e mesopotamiche Baba e Buba che gli Etruschi hanno portato sui nostrani Appennini, fuggendo dall’originaria terra in cui questo popolo ebbe forse origine.
Da tutto questo bailamme di credenze alla vecchietta sulla scopa c’è voluto un po’, e grazie anche alla Chiesa Cattolica che nel Medioevo cercò di contrastare queste credenze, siamo però arrivati felicemente alla nostra Befana.
Il personaggio della Befana appare sia in opere letterarie che nelle “befanate” toscane recitate a memoria o improvvisate; addirittura Michelangelo Buonarroti scrisse da giovane una “cicalata” nella quale, con sottile vena umoristica e con interesse folcloristico, spiega l’origine della Vecchia e della festa. In ogni secolo comunque si annoverano letterati che hanno tentato di una lettura alla tradizione, ma non esiste vera e propria letteraria per questa figura, solo filastrocche e una copiosa tradizione folcloristica ben radicata nelle provincie e regioni italiane. Ognuno ha la sua, di Befana, e tutte in comune hanno la facoltà di dispensare doni propiziatori principalmente a bambini.

Bartolomeo Pinelli, La Befana, 1821.

A questa figura pensava, ad esempio, Gianni Rodari quando nel 1964 scriveva “La freccia azzurra”, una storia nella quale i giocattoli escono la notte del 5 gennaio dalla vetrina del negozio della Befana e guidati dal trenino Freccia Azzurra si consegnano spontaneamente ai bambini più poveri. Una storia sui valori dell’amicizia e sul significato delle feste che ha trovato tante riduzioni teatrali dedicate alla scuola, e anche un adattamento per il bel film d’animazione del 1996 con regia di Enzo D’Alò.
Titolo identico alla storia di Rodari, ma contenuto ovviamente differente, in quanto produzione e regia hanno preferito ad esempio epurare la storia di tutti i riferimenti drammatici che nel libro sono presenti. Ne è nata comunque una storia piacevole, con un’animazione molto accurata che è costata quattro anni di lavoro allo studio di animazione tutto italiano nato negli anni ’80 (lo stesso che ha prodotto “La gabbanella e il gatto” nel 1994, “Aida degli alberi” nel 2001 e “Totò Sapore e la magica storia della pizza” nel 2003).
Oggi, il personaggio della benevola vecchietta, forse strega o forse dea, è presente negli scaffali delle nostre librerie grazie a molti autori che l’hanno utilizzata per storie dedicate ai ragazzi; basta dare un’occhiata o qualsiasi libreria on-line per rendersene conto e ricevere diverse pagine di titoli di libri di tutte le taglie e le tasche.
Forse dopotutto è vero: i bambini italiani sono i più fortunati del mondo in quanto oltre ai regali di Babbo Natale, ricevono anche quelli della Befana.

(Articolo pubbicato sul n.36 di Io Come Autore)

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Non credo che Charles Perrault sia stato ben conscio di ciò che sarebbe avvenuto quando, nel 1697, diede alle stampe la sua raccolta “I racconti di Mamma Oca” (Les Contes de ma mère l’Oie); pensava di dare semplicemente un contributo letterario raccogliendo storie della tradizione folcloristica che da tempo erano radicate nel patrimonio culturale di ogni popolo, compiendo in pratica già egli stesso un adattamento sulle storie originali. Storie la cui origine, per alcune, si perde nella notte dei tempi.

Dopo di lui anche altri hanno rimpolpato la raccolta e ben presto un buon numero di fiabe tradizionali sono entrate quasi di diritto nel novero delle opere letterarie. Per cui sono diventate passibili di adattamento per l’industria cinematografica.
Sui piatti della bilancia ci sono adattamenti cinematografici e film d’animazione, dove quest’ultimo piatto è decisamente più pesante, grazie all’opera costante e indefessa di Walt Disney, che dal 1937 ad oggi trasferisce le fiabe della tradizione occidentale su pellicola. Per la gioia di grandi e piccini.
Della decina di fiabe originali incluse nella prima edizione della raccolta di Perraul, in realtà solo due hanno avuto una versione animata (Cenerentola e La bella addormentata), mentre le altre pellicole famose sono state prese da altri autori della tradizione fiabesca. A iniziare da Biancaneve e Raperonzolo (fratelli Grimm), per passare a La bella e la bestia (Jeanne-Marie de Beaumont) e La sirenetta (Hans C. Andersen), per finire con Pinocchio (Carlo Collodi).
In tutti i casi si tratta di adattamenti che mostrano profonde differenze con le opere letterarie; differenze che in alcuni casi rasentano veramente l’inverosimile. Tipo che nella Biancaneve originale non è il bacio del Principe a risvegliarla, ma l’urto della bara di cristallo che le fa uscire di gola il boccone avvelenato. O la miriade di differenze della principessa addormentata nel bosco, dalla rana sparita, al nome stesso della principessa, al numero delle fate e ai loro poteri. Aiuto!
Non da meno si sono comportati i diversi registi che hanno deciso di portare in pellicola le fiabe più famose. La povera Cenerentola, ad esempio, che dal 1911 a tutt’oggi è passata allo schermo almeno una quindicina di volta, con storie a volte fedeli all’originale, ma che spesso sono servite come pura ispirazione.
È che le favole, a quest’operazione, si prestano benissimo. Sono state inventate attorno ai fuochi della caverna proprio per questo. Per essere adattate e rivestite attorno alla società che ne ha più bisogno.

(Articolo pubbicato sul n.35 di Io Come Autore)

Si avvicina il Natale ed è tradizione che da qualche parte venga rispolverato uno dei film tratti da opere letterarie che ha visto il più alto numero di adattamenti: Canto di Natale di Charles Dickens (A Christmas Carol, 1843) il più famoso dei racconti ispirati al Natale scritti dal famoso scrittore inglese, universalmente riconosciuto come l’anticipatore, se non l’iniziatore, del romanzo sociale. A parte quello, una sua ossessione è stata senz’altro il Natale, frutto forse dell’infanzia poco felice che si è ritrovato a dover gestire. Ossessione che ha prodotto nei suoi anni una serie intera di Libri di Natale (The Christmas Books), una collezione di opere che include, oltre a Canto di Natale, altri titoli: Le Campane (The Chimes, 1845), L’uomo visitato dagli spettri (The Haunted Man, 1848), Il grillo sul caminetto (The Cricket on the Hearth), 1845 e La lotta per la vita (The Battle for Life).
Di tutti questi titoli il Canto è senz’altro il più famoso ed il più adattato: la punta dell’iceberg, appunto. L’ultima prova cinematografica è del 2009, realizzata in animazione digitalizzata in 3D, con l’ausilio di attori in carne ed ossa, in cui il ruolo di Ebenezer Scrooge e dei tre fantasmi è interpretato da Jim Carrey.

Andando indietro nel tempo – per restare in tema con la storia – in questo secolo di film ne troviamo solo un altro nel 2004 (realizzato per la TV con Kelsey Grammer e Jennifer Love Hewitt) ma ne troviamo quattro nel secolo scorso, a cominciare da una dimenticata pellicola muta del 1911 con William Bechtel e regia di Charles Kent e due edizioni radiofoniche: nel 1939 con Lionel Barrymore nel ruolo di Scrooge e un’altra nel 1975 nella quale è Michael Gough a rivestire i panni dell’avaro finanziere.
Bisogna passare la bufera delle guerre mondiali per avere una produzione cinematografica che a prima vista può sembrare fedele all’opera (nel 1951 con Alastair Sim nel ruolo di Scrooge), ma che in effetti è un adattamento zeppo di modifiche. Forse è più fedele “Non è mai troppo tardi”, una pellicola italiana del 1953 diretto da Filippo Walter Ratti, con Paolo Stoppa e Marcello Mastroianni; una produzione tutta italiana sceneggiata dallo stesso Ratti coadiuvato da Piero Regnoli.
Rimanere fedele all’opera originale sembra non essere facile, se nemmeno Ronald Neame nel 1970 c’è riuscito, firmando la regia di “La più bella storia di Dickens” in cui Ebenezer Scrooge è impersonato da Albert Finney; ma questa trasposizione è un musical e comunque fa ricevere a Finney in quell’anno il Goldel Globe Award migliore attore. Per non essere da meno anche gli americani nel 1999 firmano un adattamento diretto da David Hugh Jones, con Patrick Stewart nel ruolo di Scrooge; paradossalmente, forse, il più fedele all’opera, forse perché lo Steward arriva da una lunga esperienza teatrale di Dickens (non ha mica fatto Star Trek per tutta la vita…).
Finisce qui, direte voi. Invece no, perché la storia natalizia di Dickens la possiamo trovare tagliuzzata, sminuzzata, trasformata, in altre pellicole: da S.O.S. fantasmi (Scrooged, 1988) con Bill Murray, a La rivolta delle ex (The Ghosts of Girlfriends Past, 2009) con Matthew McConaughey. Passando possiamo incontrare anche tutte le produzioni animate, a cominciare da Magoo’s Christmas Carol, del 1962, al cortometraggio Canto di Natale di Topolino (Mickey’s Christmas Carol) del 1983, senza tralasciare Festa in casa Muppet (The Muppet Christmas Carol) del 1992.
Il rischio a veder tutte queste pellicole è che alla fin fine del libro se ne perde traccia. Ed è un peccato, per le ragioni che indica Guy de Maupassant nella novella Il nostro cuore: “La parola abbaglia e inganna perché è mimata dal viso, perché la si vede uscire dalle labbra, e le labbra piacciono e gli occhi seducono. Ma le parole nere sulla carta bianca sono l’anima messa a nudo.”

(Articolo pubbicato sul n.33 di Io Come Autore)

Si racconta che i soldati americani inviati al campo di Dachau nell’aprile del ’45 si trovarono nel dilemma di come riuscire a non provocare più danni di quelli perpetuati dai nazisti. Nel senso che il livello di malnutrizione dei detenuti era talmente elevato che fu impossibile prendere le migliaia di scheletri ambulanti che ciondolavano nel campo di concentramento e metterli semplicemente a tavola per rifocillarli; la loro fisiologia avrebbe totalmente rifiutato l’ingestione di alimenti solidi. Si dovette procedere perciò per gradi al fine di non provocare devastanti danni da malassorbimento (la disbiosi in primis).
L’intestino umano – ma anche quello animale, pur in misura differente – è ricco di flora batterica che serve anche alla salvaguardia della barriera intestinale, a sostenere le difese immunologiche, a promuove la digestione e l’assorbimento, oltre a produrre vitamina K e vitamina B12. Insomma, ci fa stare bene, e se uno non mangia tutta questa microflora mica prolifera. Anzi.
Lo sapeva bene anche Proust che nella recherche infarcisce le pagine di pranzi e cene, consacrando così l’importanza della funzione della nutrizione per l’uomo, perennemente assillato dalla necessità che per sopravvivere deve nutrirsi.
Ciò che affascina in Proust è il senso di nullità che traspare dalla sua opera – intendo la Recherche nel suo insieme. ovviamente – e che prima o poi il lettore incontra nelle tremila pagine; magari lo sfiora delicatamente e passa oltre, oppure lo impatta violentemente senza più abbandonarlo. Perché il tempo deve essere perduto? E cos’è infine il tempo? Che ruolo gioca la memoria? Be’, insomma, uno prima o poi nella lettura dei sette volumi, finisce che se lo chiede: è il caso che io impieghi il mio tempo diversamente?
A dar retta a Nietzsche, del resto, la civiltà moderna è in perenne bilico tra gli atteggiamenti razionali ed equilibrati e quelli dionisiaci, istintivi e irrazionali. Per cui anche interrompere la recherche per andare a far quattro salti e trasgredire a ogni ordine costituito, fa parte della ricerca dell’illuminazione.
Di nichilista in nichilista si arriva poi magari a Dostoevskij, che in fatto di atteggiamenti ribelli ne sapeva raccontare di belle (di storie, intendo) se è vero che lo definivano “artista del caos”. Ma anche lui era alla ricerca di qualcosa, tipo la verità.
Insomma, non c’è da stupirsi se questi tre autori facciano parte della formazione culturale di molti; trattano di temi importanti, che uno comunque nella propria vita ha già affrontato o che prima o poi deve affrontare.
Fa quasi tenerezza dunque, scoprire che anche un artista del calibro di Vasco Rossi ci sia arrivato; il nostro si è infatti premurato di diramare l’informazione che, sul suo comodino, in questi ultimi tempi, i tre autori appena menzionati non mancano mai. Anzi, sono diventate le sue letture preferite.
Spero che presto incontri qualcuno che gli chiarisca che, letture come quelle, rischiano di essere come il cibo per gli internati di Dachau: il malassorbimento può fare più danni che l’astinenza.
Non me me voglia il Blasco, che come cantautore rimane tra i miei preferiti, se lo tiro in ballo per la seconda volta in poco tempo, ma se l’è cercata lui. E non me ne vorrà di sicuro anche perché quest’articolo non lo leggerà mica.
Ma sta di fatto che anche lui come molti ha abboccato all’amo e ha deciso di mettere le didascalie alle foto delle propria vita; passi per il mio di album dei ricordi, che nessuno sa chi sono e se finisce in mano agli alieni che faranno gli scavi archeologici sul terzo pianeta del sistema solare, tra qualche migliaio di anni, se io metto le didascalie alle mie foto semplifico loro il lavoro. Ma un artista famoso: boh…?!
A questo punto ho forse sbagliato a pensare che Vasco si considerasse un artista, perché se fosse vero farebbe parlare la sua arte e basta. Se invece trova il tempo di “dire la sua” sulla sua vita (rif. “La versione di Vasco”, ed Chiarelettere, 2011), prendendo a citare aforismi di autori ridondanti che non fanno parte della sua esperienza culturale, significa che c’è qualcosa che non va. Significa che ha paura di subire la stessa sorte del brontosauro, il sauro che non esiste, ma che orami è entrato nell’immaginario comune. Prima che i paleontologi facciano tremendi errori, sembra si sia detto, è meglio che fornisca io tutti i dettagli per l’identificazione e la catalogazione delle mie spoglie. Roba da ragionieri; il diploma dell’Istituto Tecnico Commerciale del resto ce l’ha (sigh!). Ma non mi fermo mica lì; intanto che ci sono faccio anche capire che mi son messo a sfogliare libri, visto che così fan tutti.
Pensandoci, però, quello che ho detto fino ad ora non è mica vero. Perché non è mica un libro vero quello che Vasco Rossi ha dato alle stampe. Di quelli che uno si mette lì e lo progetta – mica da solo, si può fare anche aiutare, gli editor delle case editrici esistono anche per quello – e poi comincia a scriverlo pagina dopo pagina finché non giudica che arriva il punto di scrivere “Fine”. Non è mica vero perché quello che ha raccolto Vasco Rossi è uno zibaldone di pensieri.
Ora, per carità, nessuno si alteri. Lo zibaldone è diventato nella prima metà dell’ottocento un tipo di composizione che ha affascinato persino il Leopardi. Per cui non è mica una cosa di cui ci si deve vergognare, scrivere uno zibaldone. Anzi, per il Leopardi, il suo di zibaldone è servito a farci capire meglio i Canti e le Operette morali. Per cui bravo il Blasco che ha fatto suo il concetto è ha dato alle stampe i suoi “pensieri da provocatore”. Probabilmente ci sta.
Così come ci sta che si definisca un “social rocker”, spero non solo in onore della scoperta dell’esistenza di Facebook fatta da lui qualche mese fa, ma piuttosto in virtù del fatto che le sue canzoni un impatto sul sociale di un certo tipo l’hanno pur avuto. Altrimenti è solo il caso di dire che il brontosauro Blasco è passato anche lui al 2.0, non tanto perché sa cosa ci può fare, ma solo perché se non lo fai c’è il rischio che non ti caghi più nessuno.
Scordando che gli artisti devono mantenere in una certa misura l’ambiguità. Sono i ragionieri che non lo devono fare.

(Articolo pubbicato sul n.32 di Io Come Autore)

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