Esistono autori che sono un po’ come il miele per gli orsi; gli orsi in questo caso sono sceneggiatori e registi. Autori come Arthur Conan Doyle che, tra le centinaia di opere scritte in 71 anni di vita e almeno una cinquantina passate davanti a una macchina da scrivere, rischia di essere ricordato solo per il suo personaggio più famoso: l’investigatore Sherlock Holmes. E di ciò, parte della colpa, è senz’altro da attribuire alla settima arte.

La filmografia che ha per protagonista l’iniziatore del genere letterario del giallo deduttivo è considerevole, molto più ampia quasi dell’opera letteraria che lo riguarda in quanto le opere di Conan Doyle sull’investigatore londinese sono quattro romanzi e una cinquantina di racconti. Dagli anni ’30 a oggi Sherlock Holmes ha però visto almeno 25 pellicole ispirate direttamente alle opere di cui è protagonista sull’investigatore londinese, di più se contiamo tutte quelle che non sono mai state tradotte e distribuite in Italia; da quelle rimaste nella memoria collettiva di Basil Rathbone, fino alle ultime in ordine di tempo in cui Robert Downey Jr. assume i toni e la figura dell’investigatore.
Per non parlare delle serie TV degli anni ’80 che vedeva Jeremy Brett nei panni del famoso detective e di quella in corso di programmazione iniziata nel 2010 dalla BBC che però proietta Holmes ai giorni nostri. Perfino noi in Italia, siamo riusciti a fare nel 1968 uno sceneggiato interpretato da Nando Gazzolo ispirato a un paio di opere di Conan Doyle.
Non sono poi così tanti i personaggi letterari si prestano alle trasposizioni, ma Sherlock Holmes è senz’altro tra quelli che meglio si presta. Al punto che come personaggio è servito anche per un significativo numero di pellicole nelle quali la sua figura è presa come esempio o parodia. Da “Sherlocko… investigatore sciocco” del 1962 e interpretato da Jerry Lewis, a “Sherlock Holmes in China” del 1994, di Wang Chi e Yunzhou Lui, passando per pellicole quali “La vita privata di Sherlock Holmes” diretto nel 1970 da Billy Wilder, “Il fratello più furbo di Sherlock Holmes” diretto nel 1975 da Gene Wilder, oppure “Piramide di paura” del 1985 in cui compare un giovane Holmes adolescente. Senza contare poi tutti i film di animazione ispirati dall’investigatore e prodotti dalla Disney e in numerose serie anime giapponesi.
Insomma: miele per gli orsi. Al punto che sceneggiatori di tutte le razze e di tutti i colori utilizzano pregi e difetti del povero Sherlock per tratteggiare i loro personaggi; basta citare il dr. House, per esempio come caso recente. Sì, perché Sherlock Holmes si presta a essere sia trasposto nel tempo sia a subire metamorfosi, come appunto nel caso del dr. House, un moderno indagatore che prende dichiaratamente e scopertamente ispirazione dall’investigatore vissuto a cavallo tra i due secoli passati. Ma l’aspetto più paradossale, se volgiamo, è che a sua volta Arthur Conan Doyle nel tratteggiare il personaggio di Sherlock si sia basato su un medico scozzese che utilizzava un metodo scientifico e l’analisi deduttiva, da lui incontrato in gioventù, quando fece praticantato come medico all’ospedale di Edimburgo.
Sherlock Holmes può essere usato in tutte le situazioni, anche per creare gustose speculazioni.
Nella pellicola “Due cavalieri a Londra” del 2003 (sequel di “Pallottole cinesi” del 2000) con protagonisti Jackie Chan e Owen Wilson, ancora una volta incontriamo il nostro investigatore. O meglio: i protagonisti incontrano Arthur Conan Doyle che fa l’investigatore per Scotland Yard, ma che medita di mettersi a fare lo scrittore: quando i protagonisti vanno al castello di campagna di Rahtbone, l’attore Owen Wilson usa il nome di Sherlock Holmes, cosa che piace molto all’ispettore Doyle tanto che lo userà per i suoi racconti polizieschi.Vizi e virtù di Sherlock del resto sono riscontrabili in molti personaggi della cinematografia, in quanto la misantropia, la genialità e l’incapacità di gestire le più basilari relazioni sociali, fanno spesso da contorno e vengono conditi in tutte le salse.

L’ingordigia di sceneggiatori e registi, poi, ha anche decretato che nell’immaginario comune Sherlock Holmes assumesse anche una connotazione differente che non nei romanzi e nei racconti. Ad esempio, per molte persone, la figura dell’investigatore è legata alla famigerata esclamazione «Elementare, Watson!», che però viene proferita solo nella scena finale del film The Return of Sherlock Holmes del 1929 (regia di Basil Dean con protagonista Clive Brook) che ha l’unico pregio di essere il primo film sonoro sul personaggio creato da Sir Arthur Conan Doyle nel quale sono ripresi liberamente alcuni temi tratti dalla raccolta di racconti pubblicata nel 1905.
Da quel momento ha poi dilagato in tutti i sequel, diventando presto il tormentone caratteristico dell’investigatore. Nell’opera di Doyle, però, non vi è traccia delle frase e il momento che si avvicina di più è uno scambio di battute tra Sherlock e l’inseparabile Watson nel racconto breve The Crooked Man del 1893. Oppure nel “Mastino di Baskervilles” nel quale compare la frase «Interesting, though elementary».
Quanto, questa licenza degli sceneggiatori, abbia contribuito a conferire a Sherlock Holmes una buona dose di antipatia e supponenza senz’altro immeritate, meriterebbe un’analisi più approfondita. Certo è che l’adattamento di un’opera letteraria, ancora una volta, dimostra il rischio a cui va incontro lo scrittore nel vedersi ricordato anche, e forse soprattutto, per ciò che non ha detto o fatto dire ai suoi protagonisti.

(Pubblicato sul n.11 di Io Come Autore)

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