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racconto di Giorgio Ginelli

2 classificato alla II edizione del Premio Città di Courmayeur, 1989
Pubblicato su Space Opera 2, 1990
Finalista al Premio Italia, 1991
Pubblicato su MCmicrocomputer, dicembre 1995

Avete mai notato come il progresso metta nella condizione di realizzare più facilmente delle macchine che lo stesso progresso ha già da tempo reso inutilizzabili?
In genere questa è la domanda con la quale apro una normale trattativa con il mio cliente. Ma non sono più un normale piazzista; ormai vendo “macchine automatiche per la lavorazione della pasta e accessori complementari allo sviluppo dell’alimentazione”, come sta scritto sulla mia licenza, e l’utenza non può certo definirsi 
normale.
Le macchine per lavorare la pasta sono inutili nel nostro tempo, direte voi. Infatti, chi mai può mettersi a tirare la sfoglia in casa?
Appunto. Ora che la tecnologia ci permette di costruire delle macchinette per tirare la pasta che sono praticamente dei gioielli di perfezione, per l’assoluta assenza di attrito fra pasta e rulli e l’infarinatura controllata da un sensore inserito all’uscita della sfoglia e comandata da un microprocessore, e altre meraviglie che non sto ad elencare, ora chi mai le comprerebbe?
Qui da noi più nessuno, ormai l’abbiamo capito. Ma cerca cerca, un piccolo mercato alla fine l’abbiamo trovato. Bastava pensarci un po’.

* * *


La stradina era molto polverosa, anche perché ci batteva il sole quasi per tutta la mattinata e non pioveva da un bel po’ di tempo. Ma era l’ultima cascina da visitare di quel turno; poi finalmente avrei avuto una settimana di sano riposo a casa.
Arrancai dunque gli ultimi metri della breve salita che mi separava dall’aia, con un fondo di felicità nel cuore generato dalla stanchezza appagante… e mi obbligai a sorridere, non appena il cane dal fondo del cortile cominciò ad abbaiare furiosamente nella mia direzione. Subito un bambino uscì dalla stalla e poi un altro da dietro un angolo della cascina, che sicuramente portava al frutteto che avevo notato salendo la stradina. Una donna si affacciò alla porta della casa, con un altro bambino attaccato alla gonna. Infine, il fattore fece capolino dall’alto del fienile col forcone in mano; pronto per ogni evenienza.
— Salve a tutti — urlai in direzione della casa senza guardare nessuno in particolare, alzando una mano a mo’ di saluto. Il gesto provocò un nervoso e sensibile aumento nell’abbaiare del cane che maledissi mentalmente. — Salve — ripetei questa volta rivolto al fattore, che stava scendendo dal fienile usando la scala appoggiata contro. — Incantevole questo posto… Sì, incantevole davvero — sibilai tra i denti, ma il cane non smise di abbaiare.
Il fattore, nel frattempo, era arrivato a terra saltando gli ultimi due pioli della scala; si girò e mi squadrò. Ma non provavo nessun timore, sapevo quanto fosse perfetto il mio abbigliamento; la nostra sezione “Immagine & Dettaglio” era all’avanguardia per quanto riguarda i travestimenti di noi piazzisti. E poi, quello stesso abbigliamento, aveva superato la prova della quindicina di altre fattorie che avevo visitato nei giorni precedenti.
La donna si avvicinò al fattore e assieme a lei anche il bambino che gli stava sempre stretto alla lunga sottana. Gli altri due, invece, erano scomparsi fin da quando il fattore aveva preso a scendere dal fienile, forse approfittando della mia visita per godere di qualche minuto di distrazione. Il cane continuava insistente ad abbaiare.
Rivolsi un mezzo inchino al fattore ed alla signora prima di deporre il voluminoso pacco che avevo fra le mani, togliendo nel contempo un fazzoletto dalla tasca della giacca per detergermi il sudore dalla fronte.
— Cos’è che vende, lei? — chiese il fattore, indirizzandomi un cenno col capo. “Male”, pensai. “Male. Questo ha già capito che gli voglio vendere qualcosa. Male…”
— Per carità — gli risposi con un terribile sorriso. — Non mi deve giudicare severamente solo perché ha avuto qualche sgradita esperienza con altri meno onesti di me… La prego.
— Non ho capito cos’è che lei vende — ripetè il fattore ostinato, avvicinandosi sempre di più con atteggiamento minaccioso.
— Sì, certo… La vedo già interessata al mio articolo e lo sarà ancora di più, dopo che le avrò illustrato il funzionamento di questo… — e parlando, tamburellavo con la mano sul grosso pacco che avevo deposto ai miei piedi, — … meraviglioso accessorio.
— C’ho già tutto per la campagna.
— Ma non è per la campagna. È per la sua casa!
— C’ho già lei per la casa. Per tutto quello che serve! — disse il fattore indicandomi la donna al suo fianco.
— Oh… Ma che c’entra… — borbottai.
— Mandel via… Mandel via che gò da fà — sentenziò il fattore rivolgendosi alla donna e indicando minacciosamente il cane che continuava a tratti a latrare.
— Appunto per quello sono venuto — dissi quasi sull’orlo della disperazione. — È proprio per dimostrarle quanto sia utile l’oggetto che ho portato con me, che sono venuto a quest’ora della giornata.
Ora che avevo un certo vantaggio non avrei lasciato loro un attimo di respiro, così mi lanciai: — La signora starà probabilmente preparando il pranzo, non vero? Bene! Se mi permette voglio mostravi un utile ausilio per il lungo e faticoso lavoro di preparazione del pasto. Vedete questo pacco?
Non mi aspettavo certo una risposta e perciò sollevai da terra il voluminoso pacco senza nemmeno guardarli in viso. — Vi è racchiusa la più fantastica delle macchine da cucina che qualcuno vi abbia mai fatto vedere! E se mi permettete di entrare un attimo vi illustrerò ciò che è in grado di fare!
— Ma no. Ma no. Non c’abbiamo ancora la corrente giusta per ‘sti rob chi. Va là. Va via…
— Ecco, anche questa è una meraviglia. Questa macchina non ha bisogno di nessun tipo di alimentazione.
— Cos’è…?
— Non ha bisogno di corrente, intendo…
— È a mano?
— Funziona con un’energia particolare, che non deve essere mai ricaricata. Una nuova scoperta scientifica! Un’energia eterna! — così dicendo scoperchiai il pacco, mettendo in mostra la macchina.
Ogni volta che arrivo a questo punto si interessano tutti di colpo al mio prodotto; il 
design stesso della macchina è stato studiato per attirare completamente l’attenzione dell’acquirente. Ed anche in quel caso, l’effetto fu quello desiderato.
Il fattore si tolse il cappellaccio e si avvicinò di più alla scatola per gurdare meglio dentro. — Potremmo entrare… — suggerii, sperando in cuor mio di averlo convinto ad ascoltarmi ancora un poco. Non rispose, ma con la testa fece segno di seguirlo. Ci incamminammo verso il casolare, mentre il cane si prodigava in lugubri strepitii, tentando di garrotarsi con la catena che lo teneva legato.
La cucina era come tutte le altre che avevo visitato in quella settimana. Rispetto ad una delle cucine alle quali siete abituati voi e anch’io, mancava di tutto. Perfino di un decente e rispettoso impianto di acqua corrente. Appoggiai il pacco sul tavolo e ne estrassi la macchina. L’attenzione di tutti era rivolta ai miei misurati gesti, anche se un velo di scetticismo animava gli occhi del fattore, mentre la donna e il bambino aggrappato alla sua sottana ostentavano uno sguardo indifferente.
Dispiegai pian piano sul tavolo tutto quello che era contenuto nel pacco: la macchina per tirare la pasta e i cinque contenitori dei rulli per i diversi formati. Poi, sempre con il mio terribile accattivante sorriso sulle labbra, guardai dritto negli occhi del fattore. — Ora, attenzione… Questa che vedete è la più 
moderna macchina per tirare la pasta che abbiate mai potuto vedere in funzione… e che vedrete mai! Se gentilmente la signora — così dicendo rivolsi lo sguardo alla donna, — volesse darmi la farina e le uova necessarie…
Ma la donna guardò l’uomo, che a sua volta mi lanciò uno sguardo nel quale potei chiaramente leggere: “Se mi consumi uova e farina per niente, t’ammazzo!”. Poi, fece un gesto e la donna si affrettò a portare un vaso e il cesto con le uova.
— Oh, bene… Sarà semplicissimo, vedrete — iniziai così ad armeggiare con la macchina. — Questo è il contenitore dove va riposta la farina. La prego, ne versi la solita quantità — dissi rivolto alla donna, che eseguì da quel momento in poi le mie indicazioni senza più degnare di uno sguardo il fattore, come se ormai quello fosse in ogni caso compito suo. — Ecco fatto… Brava… e dentro questo scomparto metta le uova… Quante ne desidera… Senza romperle… Bene, così…
Fu meravigliosa la fiducia cieca con la quale si abbandonò ai miei voleri. — Vede questo piccolo punsante? — chiesi alla fine di tutte quelle operazioni, indicando il fianco sinistro della macchina.
La donna però si era allontanata dal tavolo e il fattore mi scrutava con occhi sempre più socchiusi. — E allora? — mi apostrofò bruscamente.
— Be’, allora bisogna premerlo, dopo aver fatto tutte le operazioni che la sua signora ha così gentilmente eseguito… Sù, la prego. Non abbia nessun timore…
Ma la donna rimaneva sempre discosta dal tavolo. Fu il fattore a stupirmi, perché con un brusco movimento della mano e un grugnito di stizza incitò al donna ad avvicinarsi ed eseguire. Come a dire di non fargli fare figure con quel forestiero, ora che si era arrivati a quel punto.
Ci vollero altri due grugniti come il primo, forse anche più minacciosi, e un “Schiscia al bûton…” prima che lei si avvicinasse quel tanto che bastava per poter premere il temuto bottone. E dopo averlo pigiato si ritrasse subito, come se il pulsante scottasse e si fosse ustionata. Si sfregò persino la mano contro la sottana.
Nel frattempo la macchina si era messa silenziosamente in moto; solamente accostando l’orecchio si poteva sentire una debole vibrazione. Sul pannello comandi, dove stava il pulsante che la donna aveva così coraggiosamente premuto, una lucina verde pulsava regolare.
— Vedete questa lucina verde? È il segno che la macchina sta impastando regolarmente la farina con le uova e tra qualche minuto lascerà il posto a una lucina blu. Solo in quel momento la macchina avrà finito quella delicata operazione.
Entrambi, il fattore e la donna, guardavano alternativamente la macchina e me; la macchina come se fosse un diabolico aggeggio e me con lo sguardo di chi capisce si e no una parola su dieci di quelle che dicevo. Ma sapevo fin dall’inizio di parlare per loro quasi in una lingua sconosciuta e non me ne preoccupavo: il risultato avrebbe poi parlato da solo. Continuai perciò la dimostrazione, incurante dei loro sguardi confusi e dicendo solo lo stretto indispensabile per colmare il silenzio.
Finalmente si accese la lucina blu e lo feci subito notare ai due zotici: — Ora la macchina è pronta per sfornare il tipo di pasta che voi desiderate. Basta applicare uno di questi cinque contenitori in prossimità di questa fessura. Se non ci mettete niente uscirà la sfoglia.
Così dicendo feci avanzare di un breve tratto i rulli e dalla fessura fuoriuscì una lingua di sfoglia dello spessore ideale.
La donna e il fattore si guardarono in volto, poi guardarono me e poi ancora la sfoglia che fuoriusciva dalla fessura. Infine, sedettero.
— Toccatela, vi prego… Prenda signora — e le porsi un lembo della sfoglia fuoriuscita miracolosamente dalla macchina. — Saggiate lo spessore, la consistenza, osservate il colore. Valutate la porosità della sfoglia.
L’atteggiamento dei due nei miei confronti e in quelli della macchina, cambiò radicalemente! L’uomo, perfetto figlio del suo tempo, fu attirato dal diabolico macchinario che aveva di fronte e si impegnò a squadrare la macchina come se con la sola vista avesse potuto trapassarla per vedere gli ingranaggi muoversi al suo interno; la donna sedeva beatamente con lo sguardo perso nel vuoto e un sorriso nell’anima, come se qualche buon angelo del cielo le avesse dato finalmente una speranza per diminuire da quel giorno la fatica giornaliera.
Avevo ottenuto il risultato sperato e potrei spiegare di nuovo cosa dovevano fare, avendo ormai la loro completa attenzione. Insegnai alla donna anche a manovrare il selettore per lo spessore della sfoglia e ad inserire i contenitori per ottenere i diversi formati di pasta. — Questo è per i tagliolini. Qui, vede, si regola lo spessore della striscia, fino alla lasagna… Questo è per i maccheroni, di tutti i tipi, lunghi, corti, larghi… Questo è per la pasta speciale, strozzapreti, orecchiette… — e così via, finché non riuscii a illustrarli tutti e cinque anche nei minimi dettagli.
Alla fine mi sentivo veramente soddisfatto, come mi accade ogni volta che faccio una completa illustrazione del prodotto che devo vendere. Vedevo anche solo con un’occhiata che i due erano rimasti affascinati dalle possibilità offerte dalla macchina. In pratica, era già venduta. Aggiunsi, perciò, il tocco finale: — E attenzione, attenzione, la macchina NON HA BISOGNO DI ESSERE PULITA! È completamente, assolutamente, necessariamente, decisamente A-U-T-O-P-U-L-E-N-T-E!
A quel punto mi rimaneva solo una cosa. Come se il fattore mi avesse letto nel pensiero proprio in quel momento, sollevò lo sguardo e mi domandò: — Ma… Sa la custa ‘sta macchina…? Cosa costa?
Eravamo giunti al punto più delicato, per me s’intende. Qualsiasi cosa fossi riuscito a strappare in più sul valore convenuto dai miei superiori, sarebbe stato di mio esclusivo appannaggio. Perciò sparai alto: — Ma… Dunque, vediamo… Se dicessi quattro conigli e una pecora?
Il fattore depose piano la pasta che aveva in mano e si alzò dalla sedia sulla quale si era seduto. Mi guardò bene negli occhi e poi esclamò: — Ohe, l’è mat!
— Be’, non è poi un prezzo così tanto…
— Ma no, ma no… Le posso dare dei soldi, ma mica le pecore.
— Soldi? — esclamai a mia volta agitato, iniziando a raccogliere frettolosamente le parti della macchina disseminate sulla tavola. — Di soldi non se ne parla nemmeno. Non saprei cosa farmene. No, no… Vediamo… togliamo la pecora… diciamo allora quattro conigli, due oche, un piccione e un cesto di uova.

Disegno di Eta Muscià

La trattativa andò per le lunghe, come era nelle previsioni. Ma riuscii, comunque, a portare a casa due conigli, due galline, mezza dozzina di uova, tre bottiglioni di vino e due cespi di insalata rossina. Non era poi male, e l’insalata sarebbe stata tutta mia!
Era già pomeriggio inoltrato quando mi allontanai e ripresi a scendere la stradina polverosa che avevo percorso per arrivare fino a lì. Ero contento, perché finalmente sarei tornato a casa per un bel periodo di riposo. Promisi perfino al fattore che sarei ritornato appena avrei avuto per le mani qualche altro articolo interessante.
Non lontano dalla fattoria avevo nascosto la mia navetta. Nel vano posteriore riposi la merce che avevo avuto in cambio della macchina per la pasta, assieme agli animali, alla frutta, verdura e tutte le altre cose che avevo ottenuto dagli altri fattori durante la settimana trascorsa nel XX° secolo.
Mi misi serenamente al posto di guida e posizionai i comandi per tornare 
a casa: nel XXII° secolo.
Arrivato alla stazione di partenza uscii dall’abitacolo e salutai il compagno che attendeva il mio arrivo per riutilizzare la navetta. Feci rapidamente scaricare tutta la mercanzia racimolata, separando i miei guadagni da quelli dell’azienda e curando che le merci fossero imballate nella giusta maniera per non deteriorarle.
Quella era una fase molto delicata; la merce di scambio che avevo portato a casa valeva ora almeno diecimila volte il suo valore originario. In un secolo in cui ormai non esisteva più niente di naturalmente commestibile ed ecologicamente stabile, un uovo di gallina valeva quanto una casa personale.
Pensai, come ogni volta, per un attimo agli aspetti speculativi di quell’operazione: quanti, in questo XXII secolo, avrebbero potuto anche solo 
odorare la poca merce che noi, piazzisti temporali, raccattavamo nei secoli passati? Di sicuro solo poche centinaia tra i miliardi di abitanti della Terra. E di certo non i più bisognosi…
Con uno sbuffo e una scrollata di capo — bisogna pur vivere, diceva una vocina dentro di me — sigillai il magazzino, finalmente rilassato e contento che anche quella volta tutto si era risolto per il meglio. Ogni volta, giunto a quel punto, i problemi morali generati dai risvolti etici del mio lavoro, lasciavano il posto ai bisogni fisici. Avevo veramente bisogno di un’immediata settimana di riposo.
Andai all’armadietto e indossai una tuta antismog per uscire con sicurezza, così protetto, all’aperto; il cielo plumbeo della città era striato di vapori grigi con venature che passavano dal rosso al viola a seconda dei venti. Come al solito non si intravedeva nessun chiarore: ora ero veramente a casa!
Lo schermo gigantesco che campeggiava sul muro dell’edificio di fronte a quello della mia azienda, attirò per un attimo il mio sguardo. Una scritta lampeggiava in continuazione: AVVISTATO UNO SPRAZZO DI CIELO LIMPIDO PER PIU’ DI DIECI MINUTI AL LARGO DELL’OCEANO… TUTTI I PARTICOLARI SU…
Non finii nemmeno di leggere! Ne avevo avuto abbastanza; non avrei potuto sopportare ancora per molto un cielo 
limpido come quello del XX secolo. Corsi al mio cubicolo di due metri per tre e mi coricai immediatamente sul materassino ad acqua. Con un sospiro collegai la protesi inserita nel gomito al circuito di depurazione del sangue per una sana seduta settimanale di dialisi. Ahhh…!

(© 1987 by Giorgio Ginelli) 

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