Se senti che ti gira la testa, non ti preoccupare, è una normale sensazione dovuta alla percezione della realtà. Da quando sei nato sei stato preso da un vortice frenetico di avvenimenti, alcuni dei quali messi in moto da te… –>
“Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo e insignificante sole giallo. A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta azzurro-verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da polso digitali siano un’ottima invenzione.
Questo pianeta ha, o meglio aveva, un fondamentale problema: la maggior parte dei suoi abitanti era afflitta da una quasi costante infelicità. Per risolvere il problema di questa infelicità furono suggerite varie proposte, ma queste perlopiù concernevano lo scambio continuo di pezzetti di carta verde, un fatto indubbiamente strano, visto che a essere infelici non erano i pezzetti di carta verde, ma gli abitanti del pianeta.”
Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 1979 (traduzione di Laura Serra).
La domanda alla quale nessuno può, e forse potrà mai, rispondere è: cosa stiamo imparando dell’emergenza pandemia?
Perché se è vero che da qualsiasi evento bisogna sempre imparare qualcosa, è anche vero che ciò non è sempre facile e immediato.
Televisione e giornali ci riportano confuse reazioni: dalla gara alla solidarietà, alla preoccupazione per il futuro economico del paese, dalla rassegnazione per la reclusione forzata, alle aspre critiche su chi non ha fatto abbastanza o ha ecceduto con le misure.
Tutto importante. Tutto vitale.
Di sicuro, coloro che si sentono troppo poco su questi argomenti, sono gli operatori che in prima linea gestiscono l’emergenza, principalmente negli ospedali. Sono forse i più preoccupati, sicuramente i più coscienti; forse per quello non parlano, o se lo fanno non accade pubblicamente. La loro duplice natura (unti e untori) li rende cauti e forse spaventi.
L’ansia di informazioni nella nostra società non ha portato benefici immediati. Anzi. L’eccesso di informazioni ha confuso ancora di più coloro che lo sono per natura.
Va da sé che alcune categorie sembrano sparite dalla realtà sociale; i profughi o anche solo i senzatetto, che fino a qualche settimana fa primeggiavano nei servizi televisivi e riempivano pagine dei quotidiani, ora sembrano oscurati e svaniti.
I destini di altre categorie di persone sono invece lasciate alla pura volontà delle singole famiglie, quelle di coloro che devono gestire l’emergenze nell’emergenza; sto pensando ai disabili, psichici e fisici. Non sempre per queste famiglie valgono le regole e i limiti imposti, e ognuno deve agire come può.
La questione è capire se il problema è stare rinchiusi in casa, in questa falsa semi-solitudine, oppure accettare il cambio delle proprie abitudini che si prospetta all’orizzonte.
Di sicuro dobbiamo essere in grado di gestire questo cambiamento, quale che sia. Senza formule valide per tutti, ma ognuno con la sua misura. E soprattuto smettere di credere che tutto sia fisso e immutabile; il nostro pianeta è in continua evoluzione e noi rappresentiamo un minuscolo evento in un sistema oltremodo lungo e complesso.
Così come gli amori si misurano sulla lunga distanza, anche la nostra capacità di reazione alla pandemia saranno temprati dal tempo e dalla nostra capacità di mantenere i nervi saldi; “…i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera.”
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Lettura consigliata
John Christopher, Morte dell’erba, A. Mondadori 1956.
David Quammen, Spillover – L’evoluzione delle pandemie, Adelphi 2014.
Visione consigliata
28 giorni dopo, regia di Danny Boyle, 2002.
Ascolto consigliato
Ludwig van Beethoven, Fidelio, 1803-05.
Olocausto
Il posto migliore per nascondere
qualsiasi cosa è in piena vista.
Edgar Allan Poe, La lettera rubata, 1845.
Guardare a distanza un iceberg è un po’ come limitarsi a prendere atto che esiste solo ciò che possiamo vedere. È sbagliato, proprio come principio.
Un iceberg è una struttura intrigante: interamente fatta di acqua ghiacciata, si sviluppa per otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra. È difficile immaginare le dimensioni della parte subacquea dalla sola osservazione della parte emersa.
Considerare l’Olocausto solo quello che si è potuto vedere di ciò che accadde nei campi di prigionia alla fine della seconda guerra mondiale, è commettere esattamente quell’errore di principio. La parte più grossa dell’Olocausto beccheggia esattamente sotto il livello della nostra percezione. Le ragioni posso essere molteplici.
Anzitutto, per le nostre generazioni, l’Olocausto ha assunto la dimensione di un racconto. Reso vivido da documenti a volte scioccanti, ma nessuno di coloro che sono nati dagli anni cinquanta del XX secolo in poi può dire “io l’ho vissuto”.
L’Olocausto è stato un macabro teatrino, in cui i protagonisti assumevano ruoli ben precisi: nazisti sterminatori, popolazioni compiacenti o silenziose, vittime. Finita la guerra, terminata l’esibizione, ognuno ha dovuto dismettere i panni di scena: troppo pesanti per i primi, ignobili per i secondi, dolorosi per le vittime. Ognuno aveva le sue ragioni per cambiar d’abito e mischiarsi alla folla.
È così che a un certo punto – e questa è un’altra ragione – da un certo momento in poi non si è potuto nemmeno identificare con precisione chi volesse raccontare. Così l’iceberg ha continuato ad andare alla deriva, senza che nessuno lo vedesse all’orizzonte. E quando è stato avvistato non è stato facile andare a vedere la parte subacquea.
Ma guardare sott’acqua dovrebbe essere l’impegno delle nostre generazioni, quelle che non hanno visto, che devono educarsi al ricordo solo basandosi sui racconti. Mica facile.
“Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto” riflette Italo Calvino nel metaromanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Per fortuna ha ragione, così possiamo andare a leggere per bene tra le righe di tutti coloro che hanno affidato alle stampe la loro esperienza, sia in forma autobiografica che in termini di racconto.
Da questo punto di vista non si può che iniziare dagli scritti di una ragazza olandese che sono stati raccolti in un volume in forma di diario: i Diari di Anna Frank.
Anna Frank (1929-1945) fu una ragazza ebrea nata a Francoforte e rifugiatasi con la famiglia a Amsterdam, costretta nel 1942 a entrare nella clandestinità insieme alla famiglia per sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio nazisti. Nell’agosto del 1944 i clandestini vennero scoperti e arrestati; furono condotti al campo di concentramento di Westerbork. Da qui le loro strade si divisero ma, ad eccezione del padre di Anna, tutti quanti morirono all’interno dei campi di sterminio nazisti. Dopo essere stata deportata nel settembre 1944 ad Auschwitz, Anna morirà di tifo a Bergen-Belsen, nel febbraio o marzo del 1945.
La prima edizione a stampa dei suoi Diari tenne conto sia della redazione originale, sia di successive rielaborazioni che Anna stessa stava facendo, auspicando una futura pubblicazione del suo diario; alcune pagine del diario furono omesse, perché ritenute da Otto Frank non rilevanti. La prima edizione critica del diario fu pubblicata solo nel 1986.
Dopo un’accoglienza iniziale piuttosto fredda, a mano a mano che il pubblico veniva a conoscenza dei fatti della Shoah, il libro suscitò un vasto interesse ed ebbe svariate traduzioni e pubblicazioni; ad oggi è pubblicato in più di quaranta paesi e rappresenta un’importante testimonianza delle violenze subite dagli ebrei durante l’occupazione del nazismo.
Storia parallela per Hanneli Goslar, amica d’infanzia di Anna, separate dall’attuazione del piano di sterminio nazista, che ritroverà l’amica nel campo di Bergen-Belsen, per perderla nuovamente dopo la liberazione da parte dell’esercito inglese. Hanneli saprà della morte di Anna solo dopo la fine della guerra quando Otto Frank andrà a trovarla in ospedale e le dirà che sua figlia non è sopravvissuta. Da quel momento Otto Frank diventerà il padre adottivo di Hanneli, ne seguirà la guarigione e riuscirà a farla arrivare in Palestina dove potrà iniziare una nuova vita, una vita che ancora oggi la vede nonna di una decina di nipotini a Gerusalemme. Quarant’anni dopo, la scrittrice americana Alison Leslie Gold raccoglie questa storia nel libro Mi ricordo Anna Frank – Riflessioni di un’amica di infanzia, un libro che può essere considerato il corollario ai Diari.
Vite parallele, destini divergenti. Entrambi adattati in film: decine di volte per Anna Frank, una sola per Hanneli Goslar: una produzione italiana del 2009, con la regia di Alberto Negrin e la colonna sonora di Ennio Morricone.
L’importanza mediatica del cinema e della televisione ha avuto un indubbio ruolo di primo piano nel togliere il velo di nebbia davanti all’iceberg Olocausto, ma ha anche aiutato a spingere la testa sott’acqua alle generazioni che possono solo ascoltare i racconti.
Tutto ha inizio nel 1978 con Olocausto (Holocaust): una miniserie televisiva statunitense diretta da Marvin J. Chomsky che racconta l’olocausto attraverso il vissuto di due famiglie tedesche, i Weiss (ebrei) e i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS fino a diventare uno spietato criminale di guerra. L’argomento è stata l’occasione per rappresentare sullo schermo della televisione per far penetrare in tutte le case l’atrocità e la follia dei crimini nazisti contro gli ebrei, trattando direttamente argomenti come la creazione dei ghetti e l’uso delle camere a gas.
Lo sceneggiato all’uscita fece il giro del mondo, innescando una serie di dibattiti sull’argomento, in un periodo in cui non veniva trattato apertamente dall’opinione pubblica. La sua proiezione in Germania fornì un’ulteriore occasione per una revisione delle posizioni sulle responsabilità del popolo tedesco.
La miniserie televisiva è divenuto nel 1979 un best seller di narrativa ad opera di uno degli sceneggiatori, Gerald Green; in Italia è stato pubblicato in numerose edizioni dal 1979 al 2000 con numerose traduzioni in varie lingue.
Ma la reale presa di coscienza da parte dei tedeschi era in effetti cominciata ben prima, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, quando hanno inizio i nuovi processi contro i crimini nazisti, successivi cioè a quello di Norimberga. È proprio lì che indaga l’ultima opera cinematografica del 2015 a firma del regista italo-tedesco Giulio Ricciarelli, Il labirinto del silenzio, un film he pone al centro il tema della rimozione della memoria di una nazione che ha preferito seppellire la Storia piuttosto che affrontarla.
Ambientato in Germania nel 1958, in un clima nel quale la censura di fronte alle atrocità perpetrate dal nazismo durante la seconda guerra mondiale è solida e il paese preferisce non affidarsi ad una doverosa autocritica per non confrontarsi con lo scomodo passato. Ad alzare la cortina del silenzio è un giovane avvocato che passa dagli ordinari processi per multe all’indagine affannosa, percorrendo strade che lo conducono ad Auschwitz e ai suoi orrori, per giudicare i responsabili ancora in vita e perfettamente inseriti nella società civile tedesca. La storia è reale, ma il giovane avvocato protagonista è in realtà figura fittizia: il processo coinvolse diversi giovani procuratori scelti dal procuratore Fritz Bauer per la loro età che non permetteva adesioni emotive rispetto al nazismo.
Tra questi estremi temporali – Anna Frank e i processi ai nazisti – si dipana una lunga fila di opere letterarie che hanno avuto la fortuna di essere adattate a lungometraggio, amplificando così il potere evocativo della memoria, fissando con le immagini le parole stampate sulla carta, suscitando emozioni corali e, forse, più efficaci dal punto di vista mediatico.
Non siamo però obbligati ad affidarci alla sola letteratura per non dimenticare; il racconto può transitare direttamente dalla memoria verso il cinema, con risultati spesso sorprendenti.
A iniziare da dove tutto è cominciato, con un film per la televisione del 2001 diretto da Frank Pierson: Conspiracy – Soluzione finale. Si tratta di una cronistoria dettagliata della riunione che si tenne a Wansee (Berlino) nell’inverno del 1942, dove fu pianificato nei minimi dettagli lo sterminio degli ebrei.
Hannah Arendt è un film del 2012 diretto da Margarethe von Trotta. Nel 1961 la filosofa e teorica politica ebraico-tedesca Hannah Arendt si reca a Gerusalemme per seguire, per conto del New Yorker, il processo al funzionario nazista Adolf Eichmann. Qui rimane sorpresa quando, pensando di trovare un mostro, vede solamente un uomo mediocre; il film racconta appunto la vicenda umana della filosofa che ha saputo con il suo saggio “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil) far riflettere sulla realtà della natura umana.
Su questo tema ci ava già provato nel 1959 Gillo Pontecorvo con il film Kapò, nominato per l’Oscar al miglior film straniero. È la storia della discesa agli inferi e della risalita di una giovane ed ingenua fanciulla che da vittima viene trasformata dalla crudeltà disumanizzante nazista prima in carnefice ed infine in martire per amore.
L’amore è al centro del film La vita è bella, diretto e interpretato nel 1997 da Roberto Benigni; vincitore di tre premi Oscar, miglior film straniero, miglior attore protagonista e migliore colonna sonora, su sette nomination totali. La pellicola vede protagonista Guido Orefice, uomo ebreo ilare e giocoso, che deportato insieme alla sua famiglia in un lager nazista, dovrà proteggere il figlio dagli orrori dell’Olocausto.
Tematica difficile quella che coinvolge i bambini nei lager nazisti. Ne sa qualcosa anche Jerry Lewis che nel 1972 ha diretto e interpretato il film incompiuto e inedito The Day the Clown Cried. Basato su una sceneggiatura scritta a quattro mani da Joan O’Brien e Charles Denton, il film è uno dei più celebri casi di film perduti della storia del Cinema, grazie alle polemiche inerenti alle sue premesse e contenuti, che trattano della storia di un clown da circo interpretato da Lewis, imprigionato in un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale. Il film anticipava, per certi versi, le tematiche del lungometraggio di Roberto Benigni e non ha mai visto le sale cinematografiche per problemi di budget e ripensamenti di Lewis sulla sceneggiatura o forse sulla sua interpretazione che avrebbe forse offuscato il ricordo che i fans avevano di lui.
Piccola riflessione sul coding
Sono un’insegnante. L’impostazione naturale della mia didattica, legata alla disciplina che insegno, è in gran parte basata sulla progettualità. Impostare in modo corretto tutte le fasi di un progetto è dunque una parte cruciale della competenze che dovrei fornire agli alunni.
Una considerazione che ho sempre giudicato importante porre alla base della didattica, è la specifica suddivisione di ruoli che assumono le due parti iniziali e ben distinte di un progetto (analisi e codifica), indispensabili per attivarne la terza (implementazione).
Analisi e codifica attivano due aree ben distinte del cervello, che nell’individuo non sono sviluppate nella medesima misura. È questa la ragione principale per la quale un progetto deve essere in genere condotto da un team di lavoro, del quale fanno parte individui con caratteristiche complementari: alla base di un buon progetto si può porre infatti la costituzione di un gruppo di lavoro che sia completo ed efficace, proprio in virtù di questa condizione.
Le dinamiche dell’analisi sono in genere più complesse da gestire che non quelle della codifica, proprio per la natura stessa dell’azione; l’analisi può essere considerata una conoscenza, mentre la codifica un’abilità, senza nulla togliere a quest’ultima.
Nella fase di istruzione tipica della scuola, queste due azioni devono però essere incluse nel curricolo e insegnate a tutti gli allievi 1. Le valutazioni finali degli alunni dovrebbero tenere in debita considerazione la dinamica della complementarietà, cosa ormai molto difficoltosa in quanto è sempre meno il tempo dedicato dal docente alla conoscenza reale dell’individualità dei singoli alunni. Un alunno con un emisfero cerebrale sinistro più sviluppato del destro, sarà probabilmente maggiormente predisposto all’analisi 2, e le valutazioni complessive della sua attività non dovrebbero essere penalizzate dagli scarsi risultati ottenuti nell’attuazione della codifica. Discorso complesso, dunque, che da secoli ogni docente risolve come meglio può.
Anche la suddivisione delle discipline nei differenti curricoli di studio può essere considerata nello stesso modo: alcune maggiormente orientate all’analisi, altre basate sulla codifica e forse qualcuna dedicata all’implementazione. Di sicuro le discipline della prima categoria hanno un percorso che in genere affanna maggiormente lo studente, in quanto sono orientate alla conoscenza, al sapere, e dunque implicano una maggiore quantità di ore dedicate allo studio. Le discipline di codifica, più orientate al fare e perciò in grado di sviluppare maggiormente le abilità, sono invece percepite con più leggerezza 3 da parte dallo studente. Occupano magari lo stesso un buon numero di ore, ma passate in genere su supporti e risorse differenti che non i libri (cartacei o elettronici che siano).
A questo punto la domanda è d’obbligo: quale di questi aspetti la Scuola, intesa come sistema, deve privilegiare o amplificare con iniziative mirate, come quelle della settimana del coding e del piano nazionale della scuola digitale? Che non sono certo sbagliate in se, ma rischiano di essere vetrina solo di quella parte del tutto che è sicuramente più accattivante, ma anche pericolosamente più skill–oriented 4, e che forse non premia il lavoro di quei docenti che trovano difficoltoso innestarsi su queste modalità; anche gli emisferi dei docenti sono sottoposti alla stessa dinamica neurale e non a tutti viene spontaneo il coinvolgimento di attività orientate al fare. O, più semplicemente, cogliere il significato di certe azioni che implicano il fare.
Il coraggio di passare dallo skill al klowedge deve però essere preso in modo chiaro e preciso dalle singole istituzioni scolastiche e lo schierarsi è d’obbligo. Non lo schieramento che preclude alla battaglia, però, ma quello che prepara alla parata. Si possono portare avanti entrambi gli aspetti – segno della complessità del sistema istruzione – e ci deve essere anche la capacità di porre sullo stesso piano analisi e codifica, conoscenze e abilità. Ma non ho idea di come si possa concretamente fare.
In questo senso, l’ente ministeriale preposto a dare lumi e guida in proposito, non aiuta granché. O almeno non fornisce degli elementi utili per orientare i docenti all’azione equilibrata; anzi, a prima vista sembra calcare pesantemente la mano sulle skill, con iniziative che a molti appaiono “da vetrina”, oppure vengono proposte e finanziate attività con modalità che sicuramente sono affette da scarsa trasparenza. Obbligare a coordinare delle non certo semplici attività di pianificazione progettuale – per le quali sono d’obbligo specifiche klowedge – in tempi a volte troppo brevi per una seria attività di analisi, rischia di orientare tutte le attività verso skill, a volte fantasiose ed elaborate; ma per noi, a monte, è posto sempre il concetto chiave di competenze 5 come ormai dovremmo aver assimilato.
A prima vista sembrerebbe il cane che si morde la coda. Se così fosse, sarebbe il male minore: ogni tanto ci si ferma, si prende respiro, e si ricomincia il girotondo. Ci possiamo ridere sopra all’infinito. La realtà è che si tratta di una capra zoppa. È più grave, in quanto alla fin fine il pastore si vede costretto a sopprimerla.
Giorgio Ginelli, 2015
1. Scarsa considerazione viene invece attribuita alla terza, in genere per ragioni legate alla difficoltà di gestione per mancanza di risorse. [up]
2. “Sommariamente si può dire che l’emisfero sinistro, quello del linguaggio, è più specializzato per i processi sequenziali, serie di eventi che si susseguono nel tempo, come possono essere quelli della concatenazione logica del pensiero, mentre l’emisfero destro è più specializzato nell’elaborazione visiva o per immagini degli eventi, nella loro organizzazione spaziale oltre che nella loro interpretazione emotiva.” (Laura Catastini, università di Roma Tor Vergata) [up]
3. “…leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.” (Italo Calvino, Lezioni americane) [up]
4. Nel mondo anglosassone, ahimè, non si fa particolare distinzione tra conoscenze e abilità: sono tutte skill. Peccato, in quanto invece nelle linee guida dei curricioli italiani la differenza è presente e ampiamente dibattuta, a volte con estrema confusione e in ogni caso con poca chiarezza. Perché dunque inseguire un modello – quello anglosassone – che ci conduce per strade nebbiose? [up]
5. Definizione competenze, abilità, conoscenze secondo il Quadro Europeo delle Qualifiche (rif. Decreto ministeriale n. 139, 22 agosto 2007)
Conoscenze. Assimilazione di informazioni (fatti, principi, teorie e pratiche) relative ad un settore. Sono teoriche e pratiche.
Abilità. Applicare le conoscenze e usare il know-how necessario per portare a termine compiti e risolvere problemi. Sono cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (abilità manuale, uso di metodi, di materiali, di strumenti).
Competenze. Comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali, metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Sono descritte in termini di responsabilità ed autonomia. [up]
Ho visto il film Cloud Atlas quando è uscito nelle sale italiane e l’ho giudicato un film elegante. Nel complesso risulta forse un po’ eccessiva e maniacale la ridondanza degli attori, nel quasi caotico sviluppo della trama, ma alla fin fine è una produzione dei fratelli Wachowski, mi sono detto. Per cui va bene così.
Certamente chi non è abituato a lasciarsi trasportare dall’ambiguità delle opere di sci-fi, deve aver fatto fatica ad apprezzare il film, mi sono anche detto. In effetti, nelle settimane successive, nessuno ha gridato al miracolo e al genio; anzi, i commenti dei “puri” appassionati di cinema sono stati in qualche caso abbastanza impietosi. Quegli degli appassionati di sci-fi sono comunque stati abbastanza insipidi – anche perché forse non si tratta di un opera di genere.
Il film è l’adattamento dell’omonimo romanzo di David Mitchell, alla cui lettura sono passato qualche settimana dopo la visione del film. Si tratta di un ottimo romanzo, che si è trovato tra il 2004 e il 2005 in finale per diversi riconoscimenti letterari, sia in ambiente mainstream che sci-fi (il Nebula e il Clarke), senza peraltro riuscire a spuntarla.
L’ho letto con calma e piacere, perché è un libro colto, articolato non solo dal punto di vista della trama, ma anche dal punto di vista stilistico. Credo che questo aspetto sia il suo vero punto di forza. Mitchell è un autore britannico molto bravo, che già in altri romanzi ha sperimentato l’espediente di storie che si intrecciano; non è un autore di sci-fi, forse può essere considerato un autore di romanzi storici per come si documenta e per il tipo di trame che sviluppa.
E alla fin fine ho deciso che il film diretto dai fratelli Lana e Andy Wachowski e da Tom Tykwer, non è per niente bello. Anzi, è un adattamento fuorviante rispetto al romanzo e non rappresenta per niente un’opera significativa.
Mi è accaduto – all’inverso, però – ciò che nel 1984 è occorso a tutti gli appassionati che sono corsi a vedere il Dune di David Lynch: spaesamento e delusione. In quel caso mi ero potuto leggere con calma tutto il ciclo scritto da Frank Herbert fra il 1965 e il 1985, prima di poter vedere il film, e il senso di spaesamento era dovuto al non riconoscere il primo capitolo della saga in quello che è stato messo in scena da Lynch. Troppi i tagli, le semplificazioni che rendono oscuro e deludente paragonare libro e film.
Con Cloud Atlas ho vissuto una sindrome del tutto simile: cosa c’entra, mi sono chiesto a posteriori, la ricchezza stilistica di Mitchell con il piattume cinematografico dei Wachowski? Certi tagli e cambiamenti messi nella trama sono veramente banali e inconcludenti; se non fosse per la bravura degli attori – Tom Hanks, Hugh Grant, Halle Berry e Jim Broadbent, in primis – sarebbe perfino un film lungo e noioso.
Mitchell, nella prefazione all’edizione italiana del libro edita da Frassinelli, analizza la questione adattamento premiando l’operazione dei tre registi: “può essere un disastro non per troppa infedeltà, ma anzi per troppa fedeltà: perché fare tutti quegli sforzi per produrre un audiolibro con le figure?” (David Mitchell, Cloud Atlas, ed. Frassinelli/Sperling & Kupfer ed., 2005/2012, pgg. VIII). Sono anch’io d’accordo con lui nel dire che il trasformare la struttura a matrioska del libro in un mosaico sia stata un’idea ingegnosa, ma a quello dobbiamo fermarci purtroppo.
Il diario del Pacifico di Adam Ewing (fine XIX secolo)
Che ne è stato di tutta la ricerca sulla storia delle isole Chatham? Dubito fortemente che chiunque abbia visto solo il film capisca il senso di questa domanda. Ma il senso di questa narrazione è fortemente legato al viaggio e all’esperienza del notaio Adam – che nel film è inspiegabilmente divenuto avvocato – e alla crescita alla quale è sottoposto a causa di ciò che gli accade. È un viaggio iniziatico che lo porta a maturare un’ideale preciso.
“[…] la storia non ammette leggi: solo esiti.
Da cosa sono determinati gli esiti? Dalle azioni malvagie e dalle azioni virtuose.
Da cosa sono determinate le azioni? Dalla fede.
La fede è al tempo stesso il premio e il campo di battaglia, sia all’interno della mente sia nello specchio della stessa, ovvero il mondo. […] Perché dovremmo lottare contro l’ordine «naturale» […] delle cose?
Perché? Per questo motivo: un bel giorno, questo mondo dominato interamente da predatori andrà incontro all’autodistruzione. […] Nel singolo, l’egoismo abbruttisce l’anima; nella specie umana, egoismo significa estinzione.”
(cif. op. cit. pgg. 595-596)
Ciò che rimane nella struttura cinematografica dell’episodio che apre e chiude il romanzo, è un medico inglese pazzo che avvelena un giovane avvocato americano, il quale è salvato da un selvaggio maori grazie al debito d’onore che si era instaurato tra i due: il maori era fuggito dall’isola Chatham, si era imbarcato sulla nave ed è salvato dall’essere giustiziato come clandestino solo grazie al tempestivo intervento di Adam. Happy end con il ritorno a casa, abbraccio con la moglie e duro confronto con il suocero, partenza della coppia verso l’orizzonte abolizionista con l’eco delle sue ultime parole nelle orecchie: “«[…] capirai che la tua vita altro non è stata che una piccola goccia in un oceano sconfinato!» Ma cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?” (cif. op. cit. pg. 597)
Totalmente cancellata tutta la parte sull’isola Raiatea e l’incontro con la comunità del predicatore Horrox, che nel film compare perfino, ma a cui nessun spettatore può attribuire un ruolo sensato.
Lettere da Zadelghem (inizio XX secolo)
L’epistola è lo stile scelto da Mitchell per l’episodio che fornisce il pretesto del titolo: “L’atlante delle nuvole” è un sestetto per archi scritto dal giovane Robert Frobisher nel periodo in cui è a servizio dell’anziano compositore Vyvyan Ayrs. Le lettere sono quelle scritte da Robert a Rufus Sixsmith, l’amante che è stato obbligato a lasciare fuggendo in fretta e furia da una camera d’albergo, ma con il quale mantiene ben stretto il cordone ombelicale.
Nel film vediamo il giovane in balia delle bizze del famoso compositore Ayrs, una fugace parentesi con la giovane moglie di lui liquidata come tecnicismo amatorio inteso alla sopravvivenza, un azzardo omosessuale nei confronti dello stesso Ayrs che naufraga con la fuga di Robert e il suo fragoroso suicidio a Bruges dopo aver scritto l’ultima lettera all’amato Rufus.
Del tutto scomparsa l’ambiguo ed enigmatico atteggiamento del giovane Robert Frobisher nei confronti della vita; quello sì che avrebbe dato senso al titolo del romanzo – e del film.
Robert innamorato di Rufus, perdutamente sembra, che è costretto ad abbandonare in fretta e furia, ma che tiene legato a sé con le lettere; Robert invaghito prima della giovane moglie di Ayrs, ma poi innamorato della loro giovane figlia Eva – “[…] sa che sono terra incognita e mi esplora senza fretta, come te un tempo. Perché è magra come un ragazzo. Perché sa di mandorle e d’erba di prato.” (cif. op. cit. pg. 531) -, la quale poi lo rifiuterà per un rampollo svizzero dell’alta nobiltà europea; Robert che fugge a Bruges per poter finire di scrivere il sestetto e che si suicida in una sordida camera d’albergo sperando che il suo gesto estremo non sia frainteso. “Non lasciargli dire che mi sono ucciso per una delusione d’amore, Sixsmith, sarebbe troppo ridicolo. Sono stato infatuato di Eva Crommelynck per un breve istante, ma in fondo sappiamo tutti e due chi è il vero amore della mia vita.” (cif. op. cit. pg. 550)
La frammentazione della storia operata dai registri induce poi ad una serie di stonature; anche se sono funzionali alla sceneggiatura, non hanno un riscontro nel testo o addirittura operano delle storpiature senza un evidente bisogno. Nel film, ed esempio, vediamo un Frobisher che ruba una bicicletta per raggiungere Zadelghem, ma nel libro abbiamo un giovane compositore che incontra un poliziotto il quale gli presta una bicicletta per raggiungere la casa di Ayrs; un poliziotto che incontrerà nuovamente alla fine dei suoi giorni e che lo avvertirà del cerchio che si sta stringendo attorno alla sua sregolata esistenza.
Che ne è del sogno a occhi aperti che conduce Robert a scrivere il suo sestetto? Un sogno che nel romanzo lega insieme tutte le lettere, ma che nel film forse si è perso fra le nuvole.
Mezze vite. Il primo caso di Luisa Rey (fine anni ’70)
Non deve essere stato facile frammentare e ridurre un thriller come l’episodio della giornalista Luisa Rey che incoccia nella vita di Rufus Sixsmith, con il suo terribile e ingombrante segreto. I tre registri hanno fatto del loro meglio nell’adattamento, tralasciando quegli elementi di contorno legati ad alcune figure secondarie nella storia ambientata in un’ipotetica città americana e limando le parti che potevano della storia. Peccato, perché gli spettatori si sono persi un po’ di descrizioni argute della società di quel tempo che coronano gli avvenimenti che vedono la giovane giornalista di gossip trasformarsi in investigatrice e a rischiare la vita per mettere a nudo un sordido affare basato sulla pericolosità della scienza, mentre il povero scienziato viene eliminato in una camera d’albergo in un triste epigono del destino dell’amato Robert Frobisher. Per esigenze di sceneggiatura, certamente, viene tagliata tutta la fuga spasmodica di Sixsmith dal suo assassino così come alcune azioni sono state ribaltate di sana pianta – come l’incontro tra Luisa e l’ingegner Isaac Sachs: nel libro è lei che scopre lui a frugare nell’ufficio di Sixsmith, mentre nel film è esattamente l’opposto. La fretta, si sa, poi è cattiva consigliera e alla fin fine, nel film, non si capisce poi perché l’ingegnere si innamori della giornalista, ma nel libro si coglie tutto il respiro. Così come nel libro è necessario che Luisa si faccia passare per la nipote di Sixsmith, mentre nella sceneggiatura ciò non accade e svaniscono un bel po’ di colpi di scena in omaggio alle esigenze di copione. Svaniscono anche gli ambientalisti con cui Luisa entra in contatto nelle sue indagini e che rivestono un ruolo abbastanza importante dopo che lei subisce l’incidente causato dal sicario che ha il compito di ucciderla; il dialogo tra Luisa e Hester van Zandt (cif. op. cit. pg. 140-141) avrebbe portato il film lontano dai voleri dei registi, sicuramente, mettendo ulteriore carne al fuoco che difficilmente avrebbe potuto essere digerita dagli spettatori.
La tremenda ordalia di Timothy Cavendish (XXI secolo)
Sarcasmo e ironia sono la vena e l’arteria di questo episodio. Difficile stabilire se il coriaceo editore Cavendish che scrive le sue memorie possa assurgere al trono di beniamino del pubblico, ma di sicuro il suo atteggiamento è ciò che fa di questa storia pane per i denti di qualsiasi regista.
“Un trio di ragazzine vestite da Barbie Puttana mi si sono avvicinate pescando e strisciando a strascico per tutta l’ampiezza del marciapiede. Sono passato in strada per evitare una collisione. Ma mentre ci avvicinavamo, hanno tolto la carta ai loro sgargianti leccalecca e l’hanno lasciata cadere. Il mio senso di benessere bombardato. Voglio dire: eravamo accanto a un cestino! Tim Cavendish, il cittadino disgustato, ha esclamato alle criminali: «Perché non raccattate le cartacce?»
Una ha ringhiato: «Se no?» guardando dietro di me.
Maleducate scimmiette: «Se no, niente», ho detto, dietro la spalla. «Vi ho solo detto…»
Le ginocchia si sono piegate e poi il marciapiede ha colpito la guancia, facendo riaffiorare un vago ricordo di un incidente sul triciclo, prima che il dolore tagliasse fuori qualsiasi cosa oltre a se stesso. Un ginocchio aguzzo mi ha spiaccicato la faccia dentro un mucchio di foglie. In bocca sentivo il sapore del sangue. Il mio polso di sessanta e qualcosa è stato torto a novanta a gradi di agonia e l’orologio Ingersoll Solar non era chiuso. Mi ricordo un miscuglio di oscenità antiche e moderne, ma prima che la le ladre mi fregassero il portafoglio, la musica di un furgoncino del gelato che suonava La ragazza di Ipanema le ha fatte scattare via come vampire un minuto prima dell’alba.”
(cif. op. cit. pg. 165-166)
Non cercate traccia di questa scena nel film, perché non è stata messa. Tutto l’episodio è stato condensato per poter essere facilmente frammentato, puntando principalmente sulla ridicola reclusione forzata di Cavendish alla Aurora House e alla rocambolesca fuga. Storia che diventa fiction e che inframmezzerà l’esistenza della protagonista dell’episodio più notevole del libro che segue a ruota.
Il verbo di Sonmi-451 (XXII secolo)
Se dobbiamo cercare sci-fi nel romanzo di Mitchell, la possiamo trovare nell’episodio ambientato in un futuro non specificato, in una Seul irriconoscibile anche per quelli che vivono in Corea. L’efficace struttura narrativa è strutturata sulla forma di intervista e in parte i registi hanno cercato di mantenerla, ma si sa che un film tende a essere specifico, come ci ricorda lo stesso Mitchell nella prefazione già citata, e che “le parole possono solo dire: ecco perché non sono immagini” (cif. op. cit. pg. X).
Così facendo i registi si sono persi per strada il pezzo più bello del romanzo. Sì, perché il clone Sonmi-451 interrogato da un anonimo archivista, o meglio la sua ascesi da artificio a purosangue rappresenta il momento più interessante di tutto l’atlante.
Attraverso le domande mai banali dell’archivista si percorre tutta l’esistenza del clone, la sua condizione di servente di una mangeria, la fuga organizzata dall’Unione e i mesi trascorsi al campus universitario, l’istruzione, il viaggio nel mondo reale e la scoperta della verità sul destino dei cloni, fino alla rivolta e alla registrazione della dichiarazione che inciterà il popolo alla ribellione. Fino alla presa di coscienza dell’essere stata la protagonista di una cospirazione in parte pianificata a tavolino.
“Ma se sapevi già… di questa cospirazione, perché ti sei prestata?
Perché il martire si offre al suo giuda? Perché intravede un obbiettivo più alto.
Qual’era il tuo?
Le Dichiarazioni. I Media hanno inondato Nea So Copros con i miei Catechismi. Ogni allievo di Nea So Copros conosce le mie dodici “blasfemie”. Le guardie mi dicono che si parla persino di un “Giorno della Vigilanza” nazionale contro gli artifici che mostrano tracce delle Dichiarazioni. Le mie idee sono state ripetute miliardi di volte.”
(cif. op. cit. pg. 414)
Più della metà degli avvenimenti narrati nel romanzo nel film non sono stati riversati, anche il lungo periodo che lei trascorre all’università di Taemosan e il viaggio a Pusan tra gli untermensh. Un po’ come raccontare la Bibbia e tralasciare del tutto l’esodo del popolo ebraico… Va be’, c’è chi potrebbe pensare di farlo.
I registri hanno preferito indugiare su sequenze d’azione, gratuite anche se accattivanti, molto in sintonia con le loro precedenti opere cinematografiche. Del resto è un film, anche bello lungo, e se non ci metto delle scene adrenaliniche rischio di sentire gli spettatori che russano. Ne paga le conseguenza anche la figura dell’archivista, che chiaramente nel libro ha una personalità indagatrice che emerge man mano che pone le domande all’artificio prima della sua uccisione, ma che nel film risulta abbastanza patetico e insipido. Come insipidi sono tutti gli attori occidentali truccati con gli occhi a mandorla per sembrare cloni mal riusciti di se stessi.
Sloosha Crossing e tutto il resto (XXIII secolo)
Il corpo centrale del romanzo è dedicato senza interruzioni all’episodio ambientato nel futuro estremo, in una Terra rappresentata dalle isole Hawaii pressoché irriconoscibili e popolata da primitivi agglomerati urbani in uno scenario post-apocalittico e governati da nuovi o rinnovati miti derivati dalla storia recente. Su tutti incombe ciò che viene definita semplicemente la Caduta; solo la civiltà ultra tecnologica sopravvissuta dei Prescienti rimane a testimonianza dell’antica civiltà degli Antichi. Di sicura efficacia risulta essere l’espediente stilistico adottato da Mitchell – ed egregiamente supportato da Luca Scarlini e Lorenzo Borgotallo, traduttori della versione italiana del romanzo – nel dotare le genti future di una sorta di decadenza del linguaggio, caratterizzato dalla trasformazione di avverbi, la storpiatura di pronomi e di altre particelle dei dialoghi.
“Senti, c’avevo un pancimonio bestiale qual giorno, perché avevo mangiato una coscia di cane storpio a Hanokaa, e stavo a gambe larghe tra i carpini a monte del burrone, quando all’improvviso, gli occhi puntati su di me. «Chi va là?» ho gridato, e il muro di cespugli m’ha tagliato la voce.
Oh, sei nella merda, figliolo, ha mugugnato il muro di cespugli.
«Chi sei?» ho urlato, non troppo forte. «C’ho l’arnese, non scherzo!»
Sopra la mia testa una voce, ‘Chi sei tu!’, figliolo, Zachry il Coraggioso o Zachry il Fifone? Ho alzato gli occhi ed ecco il buon Vecchio Georgie a cavalcioni su un albero marcio, un ghigno furbacuto negli occhi affamati.
(cif. op. cit. pg. 283)
Si tratta in realtà di un episodio molto complesso e anche di questo solo una minima parte ha trovato posto nella sceneggiatura. Ciò che è svanito non è solo la sottile descrizione di tradizioni, cultura e religione dei Valligeri, dei loro rapporti commerciali con i Prescienti, ma anche i dubbi e le insidie a cui è sottoposto il valligero Zachry all’arrivo della presciente Meronym. Solo accennata è la lotta interna del guardiano di capre Zachry, che da giovane ha dovuto assistere all’uccisione del padre e al rapimento del fratello da parte della selvaggia tribù dei Kona in una delle loro frequenti scorribande.
Nella frammentazione del film questo episodio in forma di inedito epilogo è messo sia in apertura e in chiusa, come a voler dare un senso compiuto a tutta l’epopea, basata sulla volontà dell’uomo di produrre cambiamenti quando necessario, che è poi la giusta chiave di lettura del romanzo.
La cometa e i testimoni
Gli elementi che attraversano e saldano insieme gli episodi – del libro come del film – sono almeno due: una serie di artefatti e la voglia a forma di cometa che adorna la pelle dei diversi protagonisti delle storie; una sorta di silenzioso testimone genetico passato in eredità, e che nel film viene rafforzato – a volte anche con esiti ridicoli – dalla somiglianza delle fattezze somatiche dei protagonisti dei diversi episodi.
Mitchell ha inserito anche l’espediente di far scivolare di episodio in episodio degli artefatti provenienti dal passato, che hanno il compito di saldare ulteriormente le esistenze dei protagonisti e di trasmettere un ulteriore testimone narrativo. L’artefatto del primo episodio è il diario scritto dallo stesso protagonista che ritroviamo tra le letture del compositore del secondo episodio, il cui sestetto è ritrovato come musica dalla giornalista del terzo, mentre l’editore protagonista del quarto nella sua ordalia legge il manoscritto dell’avventura della giornalista, ma poi diventa lui stesso protagonista di una fiction che accompagna l’esistenza del clone protagonista del quinto episodio, il cui testamento filmato ritroviamo nel sesto e conclusivo episodio.
Una serie di passaggi fluidi, sottili, che non invadono eccessivamente la trama e sia nel romanzo che nel film mantiengon la sua forza di coesione nei caotici avvenimenti che affliggono i protagonisti.
La cometa, invece, contraddistingue coloro che hanno la forza di produrre dei cambiamenti. Un testimone silenzioso, un segno del destino, un karma tatuato. La cometa come simbolo, è da sempre nella storia dell’umanità, sia come annuncio del cambiamento o partatrice di vita, in ogni caso qualcosa di notevole, di inspiegabile, di misterioso.
L’epopea dell’uomo moderno inanella gli avvenimenti con il karma delle persone: la storia non ammette leggi, solo esiti.
Giorgio Ginelli, 2013
L’estinzione del Raphus cucullatus è dovuta principalmente a due fattori: pur essendo un uccello columbiforme era inetto al volo, e se sporcava altrettanto non si fa fatica a capire perché lo abbiano sterminato. La seconda ipotesi è più semplicemente legata alla distruzione del suo habitat naturale da parte dei portoghesi e olandesi che occuparono quella zona dell’Oceano Indiano. Distruzione che va ad aggravare forse il pesante fardello dei danni esportati dagli europei nei territori di conquista dal XVI secolo in poi.
Questo strano uccello – sviluppatosi in un ambiente ermeticamente chiuso come quello delle Isole Mauritius – aveva sviluppato anche una sorta di legame di dipendenza con un albero molto diffuso nella zona, che dalla scomparsa dell’animale ha subito a sua volta una rapida diminuzione, portandolo oggi a rischio di estinzione.
Qualcuno dirà che non è probabilmente un problema planetario se il Dodo sia sparito e la Calvaria major gli faccia seguito, ma spero siano tutti d’accordo che la faccenda andrebbe valutata seriamente in termini di modello. Culturale e antropologico.
La convivenza di differenti specie nello stesso ambiente è però qualcosa che va al di là del puro fatto antropologico e culturale. Se un uccello e una pianta hanno bisogno uno dell’altro per vivere, la civiltà non c’entra. Anzi, la civiltà è proprio il problema.
Insomma, in natura si innesca una simbiosi ed è un fatto, la civiltà lo distrugge, ma nello stesso tempo contribuisce a creare differenti generi di simbiosi. Ad esempio quella fra una rock star e il suo pubblico. Il primo non può fare a meno dei secondi altrimenti è uno sfigato che non sa come sbarcare il lunario; una bella simbiosi! I secondi devono avere qualcuno da idolatrare e da beffeggiare quando se ne stufano o quando questi dà segni di palese stordimento.
Una bella fatica stare dietro a tutto.
Vasco Rossi ama e brama fare fatica. Ce lo fa sapere anche in occasione del concerto del 25 giugno per i terremotati dell’Emilia, evento al quale non parteciperà in quanto lo giudica “poco costoso e poco faticoso”.
Caspita! Un altra occasione non colta dal Blasco per stare zitto su un argomento del quale sinceramente non si sentiva il bisogno di avere i suoi pareri illuminati.
Caspita due! Ma cos’avrà di meglio – e più faticoso e più costoso – da fare il Blasco il 25 giugno? Forse è una ricorrenza particolare che lo spingerà a partecipare a qualche altro evento.
Faccio qualche ipotesi: ricorre la morte del generale Custer avvenuta quel giorno nella battaglia di Little Big Horn nel 1876, ma è anche il giorno nel 1946 in cui in Italia si insedia l’Assemblea costituente della nostra Repubblica.
Gulp! No: mi accorgo che in effetti per un esperto trafficante informatico – come il Blasco è divenuto negli ultimi mesi – in effetti un irrinunciabile evento da commemorare potrebbe anche esserci: 1998, quello è il giorno in cui viene messo in commercio da Microsoft un prodotto che gli cambierà – al Blasco – la vita: Windows 98! Sarà quello dunque l’evento al quale parteciperà? Senz’altro in fatto di più faticoso e di più costoso, WIndows 98 non batte nessuno. E di quello il Blasco ha probabilmente bisogno.
E a lui piacendo, noi ringraziamo e apprezzeremo la sua latitanza a un evento che probabilmente non migliorerà le condizioni delle decine di migliaia di sfollati in Emilia, ma che comunque è meglio dell’altera indifferenza di una star come Vasco Rossi. Il quale, siamo sicuri, dirà ai suoi avvocati/commercialisti di aprire il portafoglio e fare una cospicua donazione. Pecunia non olet.
(Articolo pubbicato sul n.53 di Io Come Autore)
Futuro di sangue
I vampiri sono esseri che arrivano dalle profondità della storia dell’uomo ed è logico supporre che non ce ne libereremo facilmente. Con le dovute trasformazioni, ben s’intende. E sia letteratura che fumetto e cinema ci stanno lavorando.
Nel 1976 uno scrittore britannico avvezzo a scrivere un po’ di tutto, dalla saggistica scientifica ai romanzi, pensando di fare cosa gradita scrive una storia che proietta i vampiri al di là del tempo e dello spazio. Il romanzo “The Space Vampires” di Colin Wilson è ambientato praticamente quasi ai giorni nostri, in un XXI secolo nel quale forse è stata portata una visione eccessivamente ottimistica riguardo alla nostra reale capacità nello spostarsi all’interno del sistema solare. Durante il primo viaggio esplorativo di una navicella spaziale viene ritrovata un’astronave aliena all’interno della quale ci sono dei corpi umani in stato di coma, tre dei quali vengono riportati sulla Terra. Per farla breve: i tre hanno il potere di succhiare energicamente la vita agli altri esseri e per fermarli i protagonisti sono costretti a ripercorrere le origini del vampirismo. Un romanzo decisamente istruttivo, che nel 1985 Tobe Hooper trasforma nel film “Lifeforce” con la complicità dello stesso Colin Wilson. Complicità che non è bastata per frame un film di successo, soprattutto per la marcata differenza con il romanzo.
Ciò che sta alla base sia del romanzo che del film, è la trasformazione operata sui futuri vampiri, i quali saranno più orientati a prelevare l’energia vitale che non il sangue; del resto anche nelle moderne trasfusioni di sangue non si usa certo più il sangue, ma bensì il plasma.
Ma anche altri autori sono andati oltre, ben al di là delle consuete forme di vampirismo, direttamente riconducibili ai sanguigni protagonisti delle saghe più canoniche. Ma per farlo dobbiamo spostare la nostra attenzione dalla letteratura al fumetto.
Marv Wolfman nel 1973, affidandosi alla matita di Gene Colan, crea per la Marvel “Blade l’uccisore di vampiri”, che diviene nel 1998 una saga che vede protagonista Wesley Snipes anche per altri due film. L’originalità di questo personaggio inizia proprio dalla sua nascita, in quanto un vampiro infetta la madre che dà così alla luce un vampiro “purosangue” il quale diventerà il temibile ammazzavampiri che prende il nome di Blade. La sua condizione di metà umano e metà vampiro gli consente di operare sia alla luce del sole che nelle tenebre, mettendo alla dura prova tutto coloro che incontra sul suo cammino: è l’apoteosi finale, l’estinzione della specie vampira per mano della specie stessa.
Più avanti nel tempo è invece la figura di Ivan Isaak, un prete che opera in diversi periodi storici – dal tempo delle Crociate al selvaggio West – disegnato con tratto particolare dal coreano Hyung Min Woo nel 1998 nella serie di graphic novel “Priest”. Si tenta di trasformarlo in pellicola una prima volta nel 2009, con un progetto che però viene abbandonato; nel 2011 diviene un film diretto da Scott Stewart, che mette in scena la fine di una guerra secolare tra uomini e vampiri – i quali hanno presto il posto della razza di angeli caduti della versione disegnata – ambientata in un futuro nel quale il mondo conosciuto è completamente scomparso e la Chiesa ha il controllo di ogni cosa per mezzo di un ordine, del quale fa appunto parte il prete protagonista.
La letteratura, si sa, è fatta di parole, ma volte le parole non bastano. Così si usano le immagini. E le immagini si disegnano e molte alla fin fine divengono cinema. Ma tutto parte da un’idea, da uno stereotipo.
Un po’ come per i vampiri. Nascono come idea ancestrale e si trasformano con il passare del tempo, assumendo le connotazioni che più rispondono ai bisogni della società. Quello che non cambia, paradossalmente, è la natura umana.
(Articolo pubblicato sul n.52 di Io Come Autore)
Le trasformazioni di un archetipo tra carta e celluloide
A cento anni dalla morte di Bram Stoker, i vampiri continuano a popolare le notti, sia sulla carta stampata (ergo in formato elettronico) che sugli schermi (cinematografici e televisivi), passando dall’essere dai tratti terribili e degenerati per arrivare a trasformarsi in creature carine e rispettabili come li esige la società moderna. Siamo d’accordo: il loro potenziale trasformista impone anche questa capacità di mutare, ma il rischio è che esagerando possano perdere l’alienità che sta alla base della loro ragion d’esistere.
Se tralasciamo don Augustin Calmet, abate di Senones che nel 1749 scrive un “Trattato sulle apparizioni degli spiriti, fantasmi corporei, angeli, demoni e vampiri di Slesia e Moravia”, e pochi altri poemi romantici prodotti del XVII secolo, il primo vampiro letterario è quello di John William Polidori, scrittore e medico britannico vissuto tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800. Suo, infatti, è il primo racconto della letteratura moderna pubblicato nel 1891, “The Vampyre” (Il vampiro), nel quale finalmente si assiste alla prima trasformazione: da essere folkloristico a demone aristocratico. La stessa genesi di questo racconto è mito: scritto nelle nottate del maggio 1816 che l’autore passò assieme a Lord Byron e Mary Shelley alla villa Diodati, è la seconda opera assunta a notorietà dopo il Frankestein, scritto appunto dalla Shelley. Se l’opera di Polidori non è approdata al cinema, lo è almeno la nottata alla villa, con il film “Gothic” del 1986 per la regia di Ken Russell.
Il secondo tentativo letterario arriva dall’Irlanda a opera di Joseph Sheridan Le Fanu che nel 1872 scrive un’altro racconto destinato a divenire famoso e a contribuire alla creazione dell’archetipo: “Carmilla” una vampira saffica, sensuale e fascinosa, forse troppo complessa e morbosa per quei tempi, ma che ha aggiunto importanti elementi di cui hanno dovuto tener conto tutti coloro che si sono cimentati con le figure dei vampiri in ambito letterario.
Ma il vero, importante e fondamentale, passo letterario successivo è però da attribuire a un altro irlandese, direttore economico di un teatro londinese che si dilettava a fare lo scrittore: Bram Stoker scrive nel 1987 il suo “Dracula”, mettendo tra l’altro la parola fine al romanzo gotico, ma donando al genere cinematografico un serbatoio inesauribile per le pellicole dei secoli a venire. A cominciare dal nome – per quasi un secolo non si è parlato più di vampiri ma bensì di Dracula – per finire all’archetipo definitivo: Stoker innesta elementi moderni su quelli folcloristici, modificandoli e piegandoli alle sue necessità narrative.
La nascente arte cinematografica non poteva evitare di cogliere l’invito di una figura letteraria così carica di aspetti psicologici e sociologici come Dracula e Van Helsing, il suo cacciatore.
La lunga sequela di film inizia nel 1922, con “Nosferatu il vampiro” (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens) di Friedrich Wilhelm Murnau, considerato uno dei capisaldi del cinema espressionista; un film tratto dall’opera di Stoker, ma che per problemi riferiti ai diritti legali dell’opera ha dovuto subire delle significative modifiche sia nei personaggi che nell’ambientazione. Nonostante ciò il film fu comunque accusato di violazione del copyright e tutte le pellicole furono distrutte; solo grazie al regista che la trafugò, una copia è arrivata ai giorni nostri.
Tra gli anni ’30 e ’60 il vampiro si trasforma in una figura quasi “famigliare” grazie agli attori che lo hanno impersonato e che in alcuni casi gli sono rimasti legati indissolubilmente. Due nomi per tutti: Bela Lugosi e Christopher Lee. Un trentennio di pellicole in cui la Universal Studios e la Hammer si passano il testimone attingendo a man bassa dal personaggio di Stoker, puntando sul binomio dei temi della morte e del sesso, unendoli a quello dell’ambiguità: i temi preferiti dall’adolescenza di chiunque, in tutti i tempi della storia dell’uomo.
Nell’epoca della seduzione, nel trentennio successivo, la figura di Dracula diviene sempre più intrigante e si assiste a una sua ulteriore trasformazione: il rapporto con l’Altro, visto nell’ottica dall’analisi freudiana, che finché ha retto ci ha dato vampiri – anzi Dracula – con forti caratteristiche sessuali e dominatrici. Così come ci ha dato letture più o meno fedeli dell’opera di Stoker, tra cui spiccano la versione del 1969 di Jesús Franco (“Il conte Dracula”, Count Dracula), una produzione europea con Christopher Lee ovviamente nei panni Dracula e Herbert Lom in quelli del cacciatore Van Helsing, e quella del 1992 di Francis Ford Coppola (“Dracula di Bram Stoker”, Bram Stoker’s Dracula).
Fin qui tutto nei canoni, ma il mondo comincia a cambiare, il XX secolo finisce e con lui anche Dracula rischia di andare in pensione. SI prova a riproporlo ribaltando la frittata con il “Van Helsing” di Stephen Sommers del 2004, con Hugh Jackman (Van Helsing) e Richard Roxburgh (Dracula), ma la palla è già stata passata ad altri. Ai giovani. Che hanno bisogno di avvicinare il vampiro e interagire con la sua alienità, comprenderla, assimilarla. Perché dopotutto anche loro, come i vampiri, sono esseri ambigui, in perenne ricerca di uno specchio che li possa riflettere.
Ed ecco che arrivano i vampiri che rilasciano interviste, che possono vivere sotto i raggi del sole, si specchiano, ricoprono cariche sociali, anzi riescono perfino a diventare socialmente utili. È l’epoca di Ann Rice, di Stephenie Meyer e di Lisa Smith. Donne. Che, come al solito, hanno capito prima di tutti che il vento stava per cambiare.
(Articolo pubblicato sul n.50 di Io Come Autore)
All’inizio vi è uno scrittore statunitense, di origine russa, che per sbarcare il lunario egli anni ’40 inizia a pubblicare strani racconti su strane riviste. Il suo punto di forza è che ha un paio di lauree (una in chimica e un Ph.D. in biochimica) e una spiccata abilità a raccontare storie con un preciso fine divulgativo. E alla fine si decide a fare lo scrittore a tempo pieno. E riesce anche a diventare famosi in tutto il mondo.
Tra le centinaia di libri scritti e pubblicati ce ne sono alcuni, di questo scrittore, che in qualche modo sono entrati nel lessico letterario comune. Soprattutto quelli che trattano di robot.
Anzi, c’è chi crede che i robot li abbia inventati lui.
Non è vero. I robot non li ha inventati Isaac Asimov, ma di sicuro lui è stato lo scrittore che in un certo qual modo li ha codificati all’occhio della gente.
Sarà per la storia delle tre o quattro leggi che si è inventato, sarà perché ha donato loro un cervello “positronico” (che non vuol dire un bel niente, ma fa un certo effetto) sta di fatto che se dici “robot” la maggior parte delle gente pensa “Asimov”.
Non lo pensano però gli sceneggiatori di Hollywood che dalla monumentale opera di Asimov sulla ferraglia positronica hanno tratto solo un paio di film (e solo qualche telefilm in serie televisive che ormai sono archeologia). Per citarli in ordine di tempo, sono L’uomo bicentenario (Bicentennial Man) del 1999 e Io, Robot (I, Robot) del 2004.
“L’uomo bicentenario” è un racconto scritto da Asimov nel 1976 e inserito in un’antologia, appunto in occasione del bicentenario degli Stati Uniti. Narra della lunga evoluzione (duecento anni ovviamente) di NDR-113, un robot positronico nel quale si sviluppano delle doti artistiche e intellettuali eccezionali. Andrew, come viene presto battezzato il robot dalla famiglia che lo ha acquistato, ha così la possibilità di seguire le vicende dell’umanità e di affezionarsi al punto di desiderare di essere sempre più simile all’essere umano. Il cervello positronico e il tempo a disposizione gli consentono di riuscirci e di aspirare all’ultimo passo: quella di divenire un essere mortale, come gli umani. Ci riesce e viene dichiarato umano e può così spegnersi alcuni mesi più tardi in modo del tutto naturale. Il racconto diviene romanzo nel 1992, scritto a quattro mani da Asimov e Robert Silverberg: The Positronic Man.
È in questa versione che viene ripreso per il cinema, dove lo sceneggiatore Nicholas Kazan e il regista Chris Columbus aggiungono tutti quegli elementi che lo rendono appetibile al pubblico: l’amore e la comicità. Quest’ultima affidata al camaleontico Robin Williams, che rappresenta sempre una certezza. Inoltre, viene inserita nella storia originale anche una spiccata predisposizione di Andrew per la sua padroncina, la quale diventa adulta, ha una figlia, la quale a sua volta ne ha un’altra ancora, della quale il robot, ormai quasi del tutto umanizzato, si innamorerà. E sarà proprio per lei, la quale inesorabilmente invecchierà, che il robot decide di fare l’ultimo passo verso la condizione umana, morendo in un letto come dovrebbe essere per tutti.
L’antologia di racconti “Io, Robot” raccoglie i racconti scritti da Asimov tra il 1940 e il 1950, ispirati alla figura della dottoressa Susan Calvin, la robopsicologa che realizza robot sempre più sofisticati e alla quale Asimov affida anche il compito di introdurre ogni singolo racconto presente nella raccolta, come se l’antologia fosse una sorta di intervista alla ormai famosa scienziata, impegnata a dimostrare come i robot non siano una minaccia per l’uomo.
I robot presenti nell’antologia, almeno uno per racconto, sono originale e innovativi a iniziare dal primo racconto dove compare Robbie, il primo robot positronico, e nel quale compaiono anche le tre leggi. Il punto di forza dell’antologia di racconti è appunto la capacità di Asimov nel rappresentare i differenti aspetti delle problematiche che l’umanità dovrà affrontare nel quotidiano rapporto con delle menti artificiali da lui create. E se qualcuno crede che stiamo ancora parlando di fantascienza non ha altro da fare che andare su You Tube e digitare semplicemente la parola “robot”.
Di questa prestigiosa antologia, se ne impossessa la 20th Century Fox e nel 2004 dà l’incarico ad Alex Proyas di ricavarne un film. Che diventa un film di cassetta, incentrato più su Will Smith che sui racconti di Asimov. Potremmo dire che dello scrittore si utilizzano le leggi, la figura della scienziata Susan Calvin e il titolo; titolo che, a onor del vero, nel 1940 ad Asimov neppure piaceva e che gli fu imposto dall’editore (clonando il titolo del racconto di un altro autore che nel 1939 aveva scritto appunto un racconto con quel titolo).
Insomma, Asimov è scomparso nel 1992. Ha scritto forse più di chiunque altro, come romanziere e come divulgatore scientifico. Come ogni buon americano che si rispetti ha fatto lavori di ogni genere prima di diventare famoso, e quando lo è diventato, paradossalmente ha amplificato le idiosincrasie di origine nevrotica che da sempre limitavano fortemente il suo apparire e il suo rapportassi con gli altri. Ed è stato talmente famoso che possiamo ritrovare pezzi di Asimov un po’ dappertutto nel cinema, senza che sia mai citato; ma questo lo vedono solo in pochi. Sia dunque ben chiaro: la produzione letteraria di Asimov ha profondamente influenzato la produzione cinematografica del nostro tempo, senza che gliene sia attribuito il merito. E un chiaro esempio è sotto i nostri occhi proprio quando vediamo i robot che affollano gli schermi: un robot emancipato, che va al di là del semplice elettrodomestico.
(Articolo pubbicato sul n.41 di Io Come Autore)
Tutto è cominciato lì, su quell’isola; il moderno romanzo d’avventura, intendo. Quando Daniel Defoe (1660 – 1731) scrive il romanzo della maturità (aveva già 58 anni) il mondo ne aveva proprio bisogno. Presentò il suo naufrago (The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, per usare la versione abbreviata) come un memoriale, una storia vera, più che un’avventura. In effetti il romanzo prende le gesta, supposte vere, del marinaio Alexander Selkirk che Defoe condisce con generose dosi di invenzione letteraria ed è veramente colmo di informazioni, in quanto il personaggio prima di arrivare all’isola che lo ospiterà come naufrago per 28 anni passa molto tempo a viaggiare tra pirati e mercanti in mari tropicali.
Stupisce che di questa storia, la quale è una di quelle che ha scandito la crescita di molte generazioni, alla fin fine le versioni cinematografiche siano veramente limitate. O meglio, è la riprova che ciò che era un bisogno per la nascente borghesia del XVII secolo (affamata di informazioni sui nuovi luoghi del pianeta), non lo è più per quelli del XX.
Ha inizialmente affascinato niente meno che Georges Méliès nel 1902 e, se non teniamo conto della spumeggiante commedia con Douglas Fairbank degli anni ’30, fino agli anni ’50 nessuno si è più cimentato. E quello che ci ha provato è Luis Buñuel (Las aventuras de Robinson Crusoe), firmando una versione surrealista, come suo fare. Poi, negli anni ’60, la televisione francese si impossessa del soggetto e ne fa una trasposizione trasmessa praticamente in tutta Europa, Italia compresa. Molti di noi sono cresciuti con le puntate trasmesse in quella fascia che allora era la “TV dei ragazzi”.
Negli anni ’80 Crusoe diventa un venditore di schiavi nel film diretto da Caleb Deschanel (Crusoe, 1989) che vede per protagonista Adain Quinn, impegnato comunque a sopravvivere ai cannibali su un isola delle Seychelles dove incontra l’immancabile Venerdì; una storia palesemente differente da quella di Defoe, che viene più frequentemente scordata dalla critica, che ricordata.
Nel 1997 altri due registi ci provano a portare sullo schermo il romanzo che ha dato il via al genere letterario d’avventura, e per farlo si mettono insieme; Rod Hardy e George Trumbull Miller filmano il loro Robinson Crusoe in un isola della Nuova Guinea, facendovi naufragare un maturo Prince Brosnan (che è un irlandese, anziché britannico) per emulare le gesta del più britannico degli avventurieri. Il film è un adattamento abbastanza libero dell’opera di Dafoe, con differenze veniali rispetto al romanzo dettate più che altro da esigenze di copione; spicca su tutte le forzature veniali il ribaltamento della linea teologica tenuta da Defoe, che dipingeva un Crusoe effetto da un puritanesimo in linea con il periodo in cui fu scritto; nel film invece si può apprezzare l’atteggiamento accondiscendente con il quale egli accetta le credenze religiose del fido Venerdì. Anche qui, colpa della trasposizione in tempi moderni, più consoni ad allargare le braccia in un fraterno abbraccio di quelle dei colonizzatori del 1700.
Il personaggio di Dafoe è comunque un osso duro da dover digerire, per chiunque, nei tempi moderni. È certamente uno dei personaggi letterari più difficili da addomesticare al grande schermo. Meglio si presta ad adattamenti dell’idea, e infatti di naufragi è pieno il cinema. Esempio più eclatante è la lettura in chiave moderna che ne fa Zemeckis con il suo Cast Away del 2000; nella parte centrale della trama fa vivere a Tom Hanks una dinamica decisamente simile a quella di Robinson Crosue. Ma con il cipiglio americano, anziché britannico. Se il personaggio di Robinson Crusoe ha atteso pazientemente (?!) o comunque in modo forzato su un’isola più o meno deserta per 28 anni che qualcuno venisse a prelevarlo, il Chuck Noland di Zemeckis affronta con determinazione e ingegno il mare, il vero elemento che gli nega la fuga, riuscendo così a fuggire con le sue forze dall’isolamento per essere salvato in alto mare.
L’irruenza yankee, ancora una volta, ha prevaricato la compostezza britannica.
(Articolo pubbicato sul n.39 di Io Come Autore)
Una tradizione tutta made in Italy
Nel novero delle tradizioni per il periodo natalizio l’Italia si è ritagliata un angolo del tutto personale che prende il nome di Befana, la nonnina che nella dodicesima notte porta doni ai buoni e carbone ai cattivi. La stessa notte che affascinò Shakespeare al punto da utilizzarla per una delle sue più celebrate opere teatrali la cui allusione al periodo natalizio è praticamente però solo nel titolo (Twelfth Night, or What You Will, 1599-1601) e in un verso della parte introduttiva: “La favola è nuova e non altronde cavata che della loro industriosa zucca onde si cavorno anco, la notte di beffana, le sorti vostre […]”. La Befana era per Shakespeare e il suo tempo già un mistero, e così è rimasto: un personaggio misterioso che da secoli attraversa la credenza popolare, ma che non ha mai attecchito fuori dai nostri confini.
La tradizione folcloristica della Befana non si sa nemmeno bene da dove origini. Forse dalle tradizioni pagane legate al mondo agrario dell’età romana quando si celebrava, appunto fra il solstizio invernale (il 6 gennaio, appunto) e l’inizio dell’anno lunare, la figura di Madre Natura; nelle dodici notti la dea Diana accompagnava queste figure femminili che volavano sui campi appena seminati per propiziare i raccolti. Oppure ancora più indietro alle dee anatoliche e mesopotamiche Baba e Buba che gli Etruschi hanno portato sui nostrani Appennini, fuggendo dall’originaria terra in cui questo popolo ebbe forse origine.
Da tutto questo bailamme di credenze alla vecchietta sulla scopa c’è voluto un po’, e grazie anche alla Chiesa Cattolica che nel Medioevo cercò di contrastare queste credenze, siamo però arrivati felicemente alla nostra Befana.
Il personaggio della Befana appare sia in opere letterarie che nelle “befanate” toscane recitate a memoria o improvvisate; addirittura Michelangelo Buonarroti scrisse da giovane una “cicalata” nella quale, con sottile vena umoristica e con interesse folcloristico, spiega l’origine della Vecchia e della festa. In ogni secolo comunque si annoverano letterati che hanno tentato di una lettura alla tradizione, ma non esiste vera e propria letteraria per questa figura, solo filastrocche e una copiosa tradizione folcloristica ben radicata nelle provincie e regioni italiane. Ognuno ha la sua, di Befana, e tutte in comune hanno la facoltà di dispensare doni propiziatori principalmente a bambini.
A questa figura pensava, ad esempio, Gianni Rodari quando nel 1964 scriveva “La freccia azzurra”, una storia nella quale i giocattoli escono la notte del 5 gennaio dalla vetrina del negozio della Befana e guidati dal trenino Freccia Azzurra si consegnano spontaneamente ai bambini più poveri. Una storia sui valori dell’amicizia e sul significato delle feste che ha trovato tante riduzioni teatrali dedicate alla scuola, e anche un adattamento per il bel film d’animazione del 1996 con regia di Enzo D’Alò.
Titolo identico alla storia di Rodari, ma contenuto ovviamente differente, in quanto produzione e regia hanno preferito ad esempio epurare la storia di tutti i riferimenti drammatici che nel libro sono presenti. Ne è nata comunque una storia piacevole, con un’animazione molto accurata che è costata quattro anni di lavoro allo studio di animazione tutto italiano nato negli anni ’80 (lo stesso che ha prodotto “La gabbanella e il gatto” nel 1994, “Aida degli alberi” nel 2001 e “Totò Sapore e la magica storia della pizza” nel 2003).
Oggi, il personaggio della benevola vecchietta, forse strega o forse dea, è presente negli scaffali delle nostre librerie grazie a molti autori che l’hanno utilizzata per storie dedicate ai ragazzi; basta dare un’occhiata o qualsiasi libreria on-line per rendersene conto e ricevere diverse pagine di titoli di libri di tutte le taglie e le tasche.
Forse dopotutto è vero: i bambini italiani sono i più fortunati del mondo in quanto oltre ai regali di Babbo Natale, ricevono anche quelli della Befana.
(Articolo pubbicato sul n.36 di Io Come Autore)